Repubblica-Se muore l'università
Tramonta la ricerca vero motore dell'insegnamento Un documentato pamphlet di Rovatti e Derrida sui numerosi danni provocati dalla riforma Il modello aziendale comporta una quantificazio...
Tramonta la ricerca vero motore dell'insegnamento
Un documentato pamphlet di Rovatti e Derrida sui numerosi danni provocati dalla riforma
Il modello aziendale comporta una quantificazione rigida del sapere acquisito
È come se una nuova economia "bancaria" regolasse tutto a furia di debiti, crediti e sconti.
UMBERTO GALIMBERTI
Bloccata da una riforma che la vorrebbe più elastica o almeno più duttile alle domande del mercato del lavoro, l'università sta morendo, e penso che al suo funerale la bara sarà ricoperta dalla bandiera della modernizzazione e dell'adeguamento europeo. Un'Europa alquanto supposta, che dall'alto cala dentro l'università un'idea di "azienda" che chiede un linguaggio, una gestione, e ovviamente un prodotto, cioè una produttività. Gli studenti ricevono promesse di minore mortalità (falso) e maggiori chance lavorative (falso). Nelle aule c'è disagio.
A dire queste cose, che condivido alla lettera, è Pier Aldo Rovatti, professore di filosofia teoretica a Trieste, in un suo testo che compare accanto a un testo di Jacques Derrida che ha per titolo L'università senza condizione (Raffaello Cortina, pagg. 116, euro 8). "Senza condizione" significa che da sempre l'università ha nell'incondizionatezza della ricerca e dell'insegnamento la ragione della sua esistenza. Ciò vuol dire che l'università deve avere sempre un occhio vigile verso tutte quelle forme che Derrida chiama di "sovranità" (compresa la sovranità dell'università) e che di volta in volta possono assumere l'aspetto del pensiero autoritario, del regime unico di pensiero, o come oggi del pensiero aziendale, capace di ragionare solo in termini di produttività che, applicata all'università, si traduce nel maggior numero di laureati nel minor tempo possibile.
Leggo su Il Sole-24 Ore del 19 novembre che la Finanziaria 2003, oltre a tagliare il budget a tutte le università, e a vietare le assunzioni comprese quelle dei professori, mentre diventa sempre più allarmante l'invecchiamento nei ruoli, accredita istituzioni abilitate a inaugurare corsi di laurea a distanza con rilascio di diplomi di laurea di primo livello e laurea specialistica, dove è evidente che sparisce sia la ricerca sia l'insegnamento, sostituiti entrambi da segnalazioni bibliografiche, dove il libro, cioè il già saputo, preclude, come una lapide su una tomba, quel che ancora c'è da ricercare e da venire a sapere, in cui propriamente consiste il lavoro universitario.
Ma torniamo alla nostra università-azienda, dove gli studenti, che sono poi i clienti dell'azienda, non sapendo cosa dire, stanno zitti. Quelli del vecchio ordinamento, anche se caldeggiati, non passano al nuovo che pure accorcia il loro curriculo di studi di un anno. E questo già dovrebbe far riflettere sulla bontà della riforma. Quelli che oggi si iscrivono
necessariamente al nuovo ordinamento assomigliano a personaggi forzati in una vicenda che non li riguarda, perché il concetto di "studio" è stato risolto in quello di "acquisizione di competenze per il lavoro" dove l'unico fattore rilevante è la "paga", come la si chiama qui nel Nordest dove insegno, insomma euro da scambiare con beni.
Non più "formazione della personalità", non più "autovalorizzazione personale", come Pier Aldo Rovatti chiama la motivazione che spinge un giovane a iscriversi all'università, non più riconoscimento e autoriconoscimento come avveniva nelle lezioni (non tutte inutili), nei colloqui d'esame (non tutti frustranti, oggi sostituiti da anonime prove scritte), nella tesi di laurea che, se anche non letta da tutti i componenti la commissione, era pur sempre un tempo dove lo studente gettava la maschera e si metteva in discussione, perché per la prima volta era di fronte a se stesso a dimostrare, prima a sé che all'istituzione, quanta capacità culturale aveva acquisito e come sapeva muoversi.
La formazione della personalità, l'autovalorizzazione, il riconoscimento, senza il quale nei giovani non si costruisce alcuna salda identità sono tutti valori spazzati via dalla riforma universitaria, perché sono valori che appartengono ad un'altra economia che non è l'economia aziendale, dove ciò che conta è solo l'accumulo dei crediti e la parziale remissione dei debiti.
L'università, infatti, come fanno le banche con i debitori in procinto di fallire, pratica sconti, e a chi aveva trascinato gli studi senza speranza scrive una letterina per dirgli che può farcela ancora, perché con la riforma la strada è più breve e più spianata, basta che si procuri una calcolatrice e traduca tutti gli esami sostenuti, quando era in corso e fuoricorso, in crediti, fino a raggiungere la fatidica quota 180 che gli concede la laurea di primo livello per la gioia delle statistiche che in questo modo attestano la produttività dell'istituzione.
Che la riforma serva davvero a frenare la mortalità degli studenti è presto per dirlo. Che si produca flessibilità a ogni livello contrasta con tutta evidenza con la rigidità dello schema aziendale che prevede un sistema di crediti, dove ogni credito equivale a venticinque ore (inutile chiedersi perché), dove sono computate le ore di lezione, le ore di seminario o di laboratorio (se un esperimento scientifico dura più di venticinque ore, immaginatevi le virgole), le ore assorbite dalle attività formative integrative e obbligatorie (pratica dell'informatica e della lingua inglese) e infine ore dedicate allo studio individuale (calcolate come è ovvio secondo criteri estrinseci).
Raggiunta la quota di 180 crediti (sessanta all'anno) lo studente potrà avere la prima laurea e con altri 120 crediti la laurea specialistica. A questo punto l'università, ridotta a banca-istituzione, si fa garante della spendibilità di questi crediti, pronta cassa, quando l'utente dell'azienda formativa deciderà di commutarli recandosi alla banca del lavoro, se ci arriva, e se, arrivatoci, si rivelerà buon mercante del suo sapere accreditato.
Per maggiorare l'offerta "quantitativa" di insegnamenti che vada incontro all'accumulo di crediti ogni professore s'è visto aumentare dal 50 al 100 per cento il tempo da dedicare alla didattica, ovviamente sottratto al tempo della ricerca, per cui, come linea di tendenza, i professori si trovano a ripetere il sapere già acquisito invece che produrne del nuovo e di qualità. Se ciò è meno evidente nelle materie umanistiche è clamorosamente disastroso in quelle scientifiche dove il tempo passato in laboratorio si riduce paurosamente rispetto al tempo passato in aula, con conseguente rallentamento della ricerca, invecchiamento della cultura, e per chi è giovane e non si adatta a questa mortificazione, fuga di cervelli. Risultato: si importerà dall'estero quel che in Italia non si è trovato perché non si è cercato, e quel lavoro a cui l'università-azienda doveva preparare si tradurrà in un lavoro di importazione.
Un pessimismo abbastanza generalizzato va così diffondendosi per molte e diverse ragioni che finiscono per intrecciarsi intorno al nodo relativo al senso che viene ad assumere l'università. La si vuole come un'azienda produttiva. Ma è chiaro che l'università può esserne soltanto la messa in scena, senza mai poter diventare una vera azienda, perché in questo caso scomparirebbe come università.
La ragione è molto semplice. L'università è tale se "produce" cultura e non se diventa un luogo in cui si "immette" una cultura, nella fattispecie la cultura dell'azienda. E' vero che nessuno si spinge a immaginare tanto (anche se oggi chi ci governa ci prova), e allora si resta a metà strada: un po' azienda e un po' no. "Azienda di formazione" dove la formazione non ha più in vista l'uomo (e chi lo conosce più), ma solo le sue competenze.
E allora la domanda: è possibile aziendalizzare il sapere? E' possibile codificarlo per decreto ministeriale senza neppure interpellare i produttori di questo sapere che sono i professori universitari, oggi ridotti a impiegati della didattica creditizia con tempi ridottissimi per la ricerca? E' possibile calare tutto questo dall'alto come un nuovo codice della strada con l'istituzione di targhe e libretti di circolazione, dimenticando che lo studente non è un veicolo, che il professore non è un sorvegliante del traffico, e soprattutto che il sapere non è una strada trafficata. E che comunque l'università non è un'azienda che rilascia patenti di guida?
Questa riforma è stata introdotta dai governi di centrosinistra andando incontro (inconsapevolmente?) alle aspettative del successivo governo di destra che infatti non ha abolito questa riforma, ma di suo vi ha contribuito con due novità. La prima è il taglio drastico e pesante dei finanziamenti all'università che, come ogni azienda, dovrà trovarsi i soldi sul mercato, il quale è sensibile alla ricerca applicata, ma per nulla a quella di base che, se anche è riconosciuta nella sua essenzialità, è troppo costosa per il mercato e non produce profitti immediati. In questo modo saremo completamente dipendenti dall'estero e dovremo importare tutto quello che qui non abbiamo trovato perché non abbiamo cercato.
La seconda novità, ce l'ha opportunamente ricordata su queste pagine a più riprese Luciano Gallino, è l'immissione dei professori in ruolo a tempo determinato, dopo di che, e questo vale soprattutto nelle facoltà umanistiche, se un professore non è conforme alla cultura egemone che si dovesse affermare o si conforma perché "tiene famiglia" o con opportune e scientifiche motivazioni viene messo alla porta.
"Università senza condizione" scrive Derrida, ma da noi è davvero molto condizionata, ci ricorda Pier Aldo Rovatti. E condizionare l'università è condizionare la cultura di un paese, con tutto quel che ne segue in termini di sapere, di conoscenze, e alla lunga, mi spiace per il mercato, anche di profitti.