Repubblica-SE L'EUROPA RISCHIA DI RESTARE SULLA CARTA
SE L'EUROPA RISCHIA DI RESTARE SULLA CARTA EUGENIO SCALFARI Si risolve un problema e da quella soluzione nasce un grappolo di altre questioni, si chiude una guerra e comincia un dopoguerra ...
SE L'EUROPA RISCHIA DI RESTARE SULLA CARTA
EUGENIO SCALFARI
Si risolve un problema e da quella soluzione nasce un grappolo di altre questioni, si chiude una guerra e comincia un dopoguerra spesso altrettanto drammatico, si firma una nuova Costituzione e ci si trova di fronte alla sua applicazione. Perché la vita continua, continua la storia e la quiete estatica non è cosa di questo mondo.
Tanto più quando il mercato è globale, dove ogni fatto si incontra istantaneamente con altri, interferisce ed è a sua volta interferito, perché la modernità ha cancellato il concetto stesso di autarchia anche se il rimpianto autarchico permane negli individui e nelle società che stentano a uscire dalle loro arcaiche pigrizie e dalla nostalgia del "bel tempo che fu".
Così, dopo che le 25 firme dei capi di Stato apposte l'altro ieri al trattato costituzionale europeo hanno chiuso una fase, subito se n'è aperta un'altra: quale sarà la dinamica che animerà le nuove istituzioni dell'Europa unita dall'Atlantico alle steppe di Minsk e dal Baltico a Costantinopoli. Sarà mai una federazione dove le antiche nazionalità avranno lo stesso peso degli Stati americani rispetto al potere unificante del presidente degli Stati Uniti? Sarà l'Europa dei governi o quella dei popoli? Parlerà finalmente con una sola voce? Avrà un suo esercito e una sua politica estera come ha già una sua moneta e una sua banca centrale?
Ma queste domande non sono le sole (e già basterebbero a impegnare a fondo gli sforzi di due generazioni). Altre e di altrettanto rilievo s'intrecciano e interagiscono con esse: il rapporto tra le due sponde dell'Atlantico, quello tra le due sponde del Mediterraneo; infine l'evoluzione dei valori sui quali è fondata la civiltà occidentale, più che mai messi alla prova con le sfide della convivenza multietnica e multireligiosa.
I 25 capi di Stato che l'altro ieri hanno firmato il trattato costituzionale e gli altri presenti nella sala degli Orazi e dei Curiazi che già hanno chiesto di entrare a farne parte, sono sicuramente consapevoli di questi nodi che dovranno esser sciolti in un futuro ancora lontano ma ai quali bisognerà applicarsi da subito. Sicuramente consapevoli, ma altrettanto sicuramente discordi: le idee di Ciampi non sono quelle di Blair, le idee di Chirac differiscono da quelle di Berlusconi, i paesi dell'Est appena entrati nell'Unione hanno riferimenti e interessi diversi da quelli di Zapatero e di Schroeder.
Forse c'è più omogeneità tra i popoli che tra le cancellerie. Ma qual è il peso reale dell'opinione pubblica europea sui meccanismi che governano l'Unione?
Una domanda tira l'altra ma difettano le risposte. Qualche segnale tuttavia si è già percepito. Il caso Buttiglione è stato uno di essi anche se finora ridotto a un episodio di intolleranza laicista e di pregiudizio anti-italiano.
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Non è mai esistito a Bruxelles un pregiudizio anti-cattolico e anti-italiano.
Cattolici militanti furono i padri fondatori della Comunità nel 1957: Adenauer, Schuman, De Gasperi. Cattolici in sequenza sono stati gli ultimi tre presidenti della Commissione, da Jacques Delors a Romano Prodi. E per restare alla Commissione ancora in carica dopo la battuta d'arresto imposta a Barroso, cattolico praticante è Mario Monti, forse il più apprezzato dei commissari, con otto anni di servizio alle spalle. Del resto non è stato soltanto Buttiglione a esser bocciato dall'Europarlamento: insieme con lui sono stati respinti altri quattro commissari di varia nazionalità e varie appartenenze religiose.
Chi ha perso in questa vicenda è stato Buttiglione e con lui il governo italiano, ma le ragioni sono molto diverse da quelle fin qui indicate. Il Parlamento era alla sua prima uscita politica alla vigilia della firma della nuova Costituzione. Barroso aveva accettato supinamente le indicazioni dei governi riguardo ai nomi dei candidati commissari. Il voto parlamentare di Strasburgo ha voluto al tempo stesso dimostrare che il Parlamento non è più un semplice organo di consulenza ma un organo politico dotato di poteri penetranti. Con quel voto ha richiamato Barroso a esercitare senza timidezze i suoi poteri verso i governi e ha segnalato a questi ultimi che non potranno da soli gestire l'Unione.
Buttiglione ci ha aggiunto del suo, ma le vere cause di questa vicenda sono molto più serie dei casi personali.
Quanto al governo italiano, esso ha misurato in questa ed in altre recenti occasioni non già un pregiudizio negativo anti-italiano ma gli errori compiuti dalla nostra politica estera. L'Italia ha puntato tutte le sue carte sull'alleanza con Bush, considerando con un "benign neglect" neppure troppo benigno, l'approccio all'Europa. Non ha considerato che siamo tra i fondatori dell'Unione e ormai indissolubilmente legati ad essa, mentre con gli Usa possiamo tutt'al più dar vita ad una sorta di pasticcio tra un cavallo e un'allodola, per di più di precaria cottura. E infine: alla vita, alle scelte, alle decisioni dell'Unione europea noi partecipiamo direttamente e dall'interno dei suoi organi di indirizzo e di gestione, mentre è pressoché nulla la nostra partecipazione alle decisioni degli Stati Uniti.
Tra queste due divaricate linee di politica estera noi abbiamo scelto quella senza sbocco e ne paghiamo oggi le conseguenze. Né può consolarci l'apparente identità con la linea di Tony Blair, anch'essa peraltro in serie difficoltà. La Gran Bretagna ha fatto della speciale relazione con gli Usa la base della sua politica estera fin dai tempi di Churchill, coerentemente sta soltanto con un piede dentro l'Unione europea. Nessun paragone è dunque possibile tra Londra e Roma.
Il caso Buttiglione ha dunque rappresentato l'affermazione del Parlamento di Strasburgo nei confronti delle Cancellerie dei governi membri. Forse non è ancora possibile identificare il Parlamento con l'opinione pubblica europea.
Bisognerebbe (bisognerà) arrivare ad un'Assemblea direttamente eletta dal popolo europeo e non, come ora, dalle singole nazioni. Ma fin d'ora il Parlamento è l'organo dell'Unione con maggior contenuto e sensibilità popolare. E dunque la vicenda Buttiglione rappresenta un segnale importante nell'evoluzione auspicabile verso un'Europa federale, quella voluta fin dall'inizio dai padri fondatori della Comunità.
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Avremo, sulla base del trattato costituzionale testé firmato, un presidente del Consiglio dei ministri che durerà in carica due anni e mezzo (rinnovabili) anziché l'attuale rotazione semestrale, ed avremo un ministro degli Esteri che dovrebbe essere la voce dell'Unione nelle questioni di sua competenza.
Credo che la prima carica ? sulla quale non si è finora enfatizzato ? sia di gran lunga più importante della seconda. Il presidente del Consiglio dei ministri ha solo poteri di coordinamento e di programmazione dei vari dossier, è vero. Ma in una Comunità di 25 paesi (tra poco più di 30) il coordinamento e il metodo di lavoro sono d'importanza notevolissima per un soggetto politico in costante evoluzione. La novità rispetto al passato non è soltanto nella durata dell'incarico, di cinque volte più lunga di prima o addirittura di dieci, ma anche nel fatto che quell'incarico è incompatibile con qualsiasi altro.
Attualmente il presidente a rotazione è nello stesso tempo capo del governo nel proprio paese. Non sarà più così: il presidente del Consiglio europeo si occuperà soltanto di Europa, per conseguenza il suo interesse e i suoi legami col paese di origine tenderanno a diventare più deboli come già accade oggi per i membri della Commissione. E questo sì, è un passo di estremo rilievo.
Il ministro degli Esteri, pur importante nel quadro dei nuovi organi comunitari, è tuttavia limitato dal fatto che in materia di politica estera ciascun paese membro dispone d'un diritto di veto. Il ministro degli Esteri, per poter parlare efficacemente a nome dell'Unione, dovrebbe quindi avere dietro di sé l'unanimità dei consensi, condizione che allo stato dei fatti è del tutto irrealizzabile. Passare dunque dalla regola dell'unanimità a quella della maggioranza qualificata in politica estera rappresenta un requisito indispensabile. Ma esso, ancora una volta, pone il problema dell'esistenza e del peso del popolo europeo nel funzionamento dell'Unione. E quello del Parlamento eletto unitariamente rispetto ai governi nazionali.
Come si vede, le interdipendenze tra le varie questioni sono continue e strettissime e vanno seguite con continuità e attenzione.
Una parola per quanto riguarda il seggio all'Onu, del quale tanto si discute in Europa e soprattutto in Italia a causa della candidatura tedesca nel Consiglio di sicurezza. Ad essa l'Italia contropropone un seggio da attribuire all'Unione europea, assegnato per cinque anni a rotazione ad uno dei paesi che ne fanno parte.
In un'Europa dove gli Stati nazionali abbiano conferito all'Unione la sovranità in politica estera, la proposta italiana sarebbe del tutto logica e condivisibile. Ma poiché siamo ancora ben lontani da quel traguardo, l'attribuzione di un seggio Onu all'Unione europea in quanto tale è un proposito privo di senso concreto. A causa delle profonde divergenze tra gli Stati membri, il rappresentante dell'Europa nel Consiglio di sicurezza dovrebbe restare il più delle volte muto e astenuto dal voto.
Avrebbe invece un senso stabilire che quei paesi europei che siedono nel Consiglio di sicurezza dell'Onu a titolo permanente o transitorio, debbano preventivamente consultarsi sulle grandi questione con il Consiglio dei ministri dell'Unione e tener conto delle indicazioni che in quella sede emergeranno. E' un vincolo debole allo stato dei fatti ma è comunque un presagio di futuro non privo di importanza.
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Quel che conta oggi, come con commossa autorevolezza ha ricordato Ciampi nel suo brindisi al pranzo ufficiale dopo la firma del trattato, è la strada percorsa dal '57 ad oggi. Anzi dal '44, quando l'Europa uscì distrutta dalla guerra mondiale da lei per due volte provocata nel breve spazio di venticinque anni.
Oggi una guerra in Europa è impensabile. Gli antichi odî, rivalità, rivincite, sono stati spenti; vincoli profondi si sono creati. Il cantiere è ancora aperto e lo sarà a lungo, ma si lavora e si procede. Personalmente ho sempre pensato che spetti al popolo europeo di imprimere il suo segno in questa architettura, premendo sui suoi rappresentanti nazionali e puntando sulla loro graduale trasformazione in rappresentanti dell'Europa federata. I giovani, come Ciampi ha ricordato, già vivono in questo clima europeo, nei comportamenti quotidiani più ancora che nelle idee consapevoli. Questa è la forza dell'idea d'Europa: e ormai nessuno potrà più fermarla poiché vive nei fatti di tutti i giorni, dalla scuola alle vacanze, dalla vita delle imprese e del lavoro alla spesa delle massaie al mercato.
I giovani d'oggi vedranno l'Europa compiuta. Ciampi aveva il brillio delle lacrime negli occhi quando ha levato il calice a questo obiettivo che è già in parte diventato realtà. Quella è la via da percorrere per costruire il futuro.