Repubblica-Scuola storia di un disastro annunciato
Scuola storia di un disastro annunciato PIETRO CITATI Sono appena usciti due eccellenti libri sulla scuola, che tutti gli italiani dovrebbero leggere. Dopo il disastro della Cirio, della Parmala...
Scuola storia di un disastro annunciato
PIETRO CITATI
Sono appena usciti due eccellenti libri sulla scuola, che tutti gli italiani dovrebbero leggere. Dopo il disastro della Cirio, della Parmalat, dell'Alitalia, della Fiat, delle squadre di calcio, quello prossimo e grandioso della Riforma regionale, il disastro del liceo e dell'Università avrà presto dimensioni e conseguenze tali che gli altri sembreranno lievissime carezze di piuma. Raccomando questi libri al ministro Letizia Moratti: più di lei, all'ex ministro Luigi Berlinguer, e agli altri ex ministri, Francesco D'Onofrio, Antonio Ruberti e a coloro dei quali, con dolore grandissimo, mi accorgo di avere dimenticato il nome. Il ministro e gli ex ministri potrebbero leggere i due libri tutti insieme, in uno dei sinistri stanzoni di viale Trastevere. Se non ne hanno, come temo, la forza, potrebbero farseli leggere da qualcuno dei loro consulenti.
Il primo libro è di una scrittrice, Paola Mastrocola: La scuola raccontata al mio cane (Guanda, pagg. 192, euro 12): brillante, spiritoso, ilare - di quell'ilarità felice che nasce dal più furibondo furore. Paola Mastrocola lasciò la scuola, dove insegnava latino al liceo, nel 1992; e quando ritornò, tre anni dopo, la scuola non c'era più. Al posto della scuola, c'era il Progetto, l'Autonomia, il Pot e le Istruzioni per l'Accoglienza. C'erano i Nomi: strumento didattico, parte operativa, preparazione alla verifica, moduli coordinati, percorsi formativi, testi regolativi, schede mirate, contestualizzazione, lettura intertestuale, progetti multimediali, approfondimenti, pianificazione dell'offerta, processo consapevole, narratore omodiegetico, che avrebbero entusiasmato Bouvard e Pécuchet quando, seduti nella scrivania a doppio leggio, copiavano diligentemente le sciocchezze dell'Universo.
Nella scuola, subito chiamata NUOVA dalle televisioni, mancavano molte altre cose, che enumero rapidissimamente. Erano state abolite le regole e le norme, specialmente le piccole: mentre il divieto di uccidere e di rubare e di dire falsa testimonianza è molto meno importante, per la società umana, di quello di offendere la consecutio temporum.
Era caduta ogni precisione; e, caduta la precisione, era stramazzato penosamente al suolo il dono di organizzare il pensiero secondo una forma. Il facile e il facilissimo avevano travolto ogni resistenza, dilagando dovunque, dalle industrie alla letteratura ai giornali, e sconfiggendo il difficile - l'unica cosa che rende vivace, divertente e sopportabile la vita e la scuola.
Non credo affatto che i bambini di oggi non amino la lettura: o il racconto, lo stesso racconto che i Greci del decimo o del settimo secolo ascoltavano dagli aedi. I bambini adorano la voce che narra all'infinito. Due anni fa, ho raccontato l'Odissea a una bambina di sette e a un bambino di quattro anni; ci sono volute due puntate di tre ore, alla fine delle quali io ero spossato, mentre loro allegrissimi: mi hanno fatto domande molto più intelligenti di quelle che, di solito, i filologi classici rivolgono ad Omero; il giorno dopo, appena seppero che io avevo trascurato una parte, il viaggio di Telemaco nel Peloponneso, mi obbligarono a riprendere il racconto per un'altra ora, sebbene la pastasciutta fumante si raffreddasse e le amate cotolette alla milanese con le patatine fritte si rinsecchissero miseramente sul piatto. Non è vero che i bambini non leggano. I padri e le madri li mandano ogni pomeriggio alle lezioni di nuoto, tennis, pallavolo, lotta cinese, computer, spagnolo, cavallo; mentre dalle diciotto alle diciannove, potrebbero tenerli con sé, sul grande divano di famiglia, leggendo loro Le favole italiane di Calvino o Pinocchio o i primi libri di Harry Potter. E se i professori non leggono a scuola, è colpa sia dei programmi (un ragazzo di 15 anni ama Delitto e castigo, non La coscienza di Zeno, che gli è incomprensibile): sia degli abominevoli Consigli di Classe, che sfibrano e distruggono i professori (offesi, vilipesi, malpagati), quasi ogni giorno, dalle sedici alle diciannove.
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Ho molta stima per Salvatore Settis, che ha pubblicato: Quale eccellenza? Intervista sulla Normale di Pisa, ottimamente curata da Silvia Dell'Orso (Laterza, pagg. 180, euro 10). Settis è il migliore studioso italiano di arte antica; si occupa di beni culturali: ha diretto il Getty Research Institute a Los Angeles; ora dirige, credo bene, la Scuola Normale Superiore di Pisa. Qualsiasi cosa dica o scriva, conosce le cose di cui parla: qualità oggi rara in Europa, dove tutti preferiscono parlare delle cose che annusano da lontano o ignorano completamente. Un solo fatto mi dispiace: che non scriva più libri di storia dell'arte.
Anch'io sono stato normalista, dai diciassette ai ventun anni: 1947-1951. Dal 1949 al 1951, ho abitato in una camera bellissima nel palazzo del Vasari, che dà su piazza dei Cavalieri: camera alta sei metri, vasta almeno cinquanta metri quadrati, con austeri mobili moderni e un letto francescano in un angolo. Nella stanza vicina, pensava, dormiva e fantasticava Aldo Capitini: un uomo incantevole, sorridente, grassotto e trotterellante, di cui conoscevo tutte le sue vicende igieniche, perché ogni volta usciva di camera fischiettando arie di Mozart e di Beethoven. Davanti, abitava un erudito freddolosissimo, Delio Cantimori, nascosto nella sua camera-tana, dalla quale usciva soltanto avvolto in cappotti e coperte e sopraccappotti e sopracoperte: mi guardava con sopracciglia fosche e sospettosissime: in primo luogo perché ero un reazionario (votavo per Giuseppe Saragat) e poi perché non ero "un allievo diligente", visto che i suoi utopisti, prerivoluzionari, rivoluzionari e postrivoluzionari mi annoiavano indicibilmente.
Alla Scuola Normale, facevamo la fame: pastasciutta una volta la settimana: la carne era sostituita, ogni tanto, da un animale stranissimo, incrocio tra un pollo, un volatile tropicale e un coniglio che i normalisti chiamavano il vipistrello. Non c'erano mai soldi: sembrava di vivere in un libro minore di Dostoevskij: niente assegno di cento euro mensili, che ogni normalista oggi riceve dall'Amministrazione; io, che ero uno dei più abbienti, ricevevo da casa 2000 lire al mese, con le quali compravo chili di castagnaccio. Ma il cibo, a quell'età, non importa niente. Il novanta per cento dei normalisti era stalinista: adoravano Cantimori perché era uno studioso serio (così si diceva allora, con una particolare genuflessione della voce): infatti, quand'era fascista aveva studiato seriamente, dal 1930 al 1939, il nazionalsocialismo; e allora (passati pochissimi anni) studiava con la stessa serietà, e un'emozione che giungeva fino a rossori, tremori e lacrime da vergine, i saggi storici di Palmiro Togliatti. Alla Scuola Normale, insegnava anche Giorgio Pasquali: insieme a Carlo Diano, il migliore filologo classico del secolo scorso. I normalisti non lo trovavano serio. Infatti, era un grandissimo, dolorosissimo buffone, col cuore pieno di melanconia e tenerezza. Qualche normalista, non privo di talento, abbandonò i suoi seminari, per studiare filologicamente (?) l'Unità: il capolavoro politico-storiografico dei tempi moderni.
Della Normale, ho anche buonissimi ricordi. Alle otto di mattina scendevo quasi nudo, in pigiama e vecchie pantofole, in Biblioteca (eccellente, ma molto meno ricca di quella di oggi): firmavo frettolosamente diciotto o venti schede (ora tutto sarà molto più regolare) e tornavo carico di libri nella mia camera vasariana, grondante di ricordi dei Cavalieri cinquecenteschi. Avevo il sogno infantile della scienza pura: la ricerca appassionata, acuminata, spassionata della verità, quale essa sia, con tutta la bibliografia necessaria. Imparare ad usare gli strumenti scientifici era (ed è) molto più facile di quanto dica Salvatore Settis: un filologo classico sa in due settimane che deve impiegare il dizionario greco di Liddell-Scott (per metà opera del padre dell'Alice di Carroll), che il migliore dizionario etimologico greco è quello di Pierre Chantraine, che la Pauly-Wisson è un'enciclopedia, utilissima, ma un po' invecchiata, che se vuole studiare Omero nulla è meglio del Lexicon des fruhgriechischen Epos fondato da Bruno Snell...
Poi c'erano i seminari, di cui tutti parlano e che pochissimi professori sanno fare. Non so nemmeno descrivere quale fosse, per un ragazzo di diciotto o diciannove anni, la beatitudine e l'ebbrezza, di stare seduti attorno a un lungo tavolo insieme a un professore intelligente come Giorgio Pasquali o Gianfranco Contini, e una dozzina (non più) di compagni e amici. C'era un testo spalancato sul tavolo. Si trattava di capire il significato di ogni parola, il rapporto con tutte le altre parole, le fonti, le allusioni, le varianti, i rapporti con altri testi, i pareri degli studiosi, le eventuali lacune; e poi bisognava avanzare ipotesi, discuterle, ritirarle, litigare, con l'amico in nome della Scienza, aggredire il professore e, proprio in quel momento, capire che i dolcissimi, lacrimosi occhi basedowiani di Pasquali e i baffetti di Contini ti amavano.
Poi, veniva la fase dei cosiddetti colloqui. Ogni anno, a ottobre, ciascuno di noi si sceglieva un tema a suo piacere, e lo imponeva al professore, il quale, se intelligente, era molto contento di questa imposizione. Studiavamo per quattro o cinque mesi, alzandoci nel buio, alle quattro di mattina: qualche compagno notturno veniva a chiacchierare: lo cacciavamo via; e a febbraio di ogni anno ognuno aveva pronta la sua tesina, di almeno settanta o ottanta pagine fittissime. Oggi, so bene che la tesina valeva poco; eppure era un grande esercizio. Così, in quattro anni, facevamo in realtà quattro tesi (oltre ai noiosissimi esami), mentre gli studenti di oggi lacrimano e protestano con la mamma se devono scrivere diciotto paginette in tre anni. Mi correggo. Non tutti gli studenti di oggi: perché i miei amici professori universitari, che insegnano anche negli Stati Uniti, mi assicurano che tra cento studenti italiani ce ne sono sempre sette o otto molto più intelligenti e brillanti degli studenti americani.
Alla Scuola Normale, regnava allora (oggi non so), una meravigliosa indisciplina, come nelle università medioevali. Tra di noi non c'erano criminali, come ai tempi di Villon: ma, spesso, la sera, ci perdevamo nella città, risalivamo i Lungarni, fino a contemplare il Duomo, il Battistero e la torre pendente illuminati dalla luna, mentre i pisani dormivano. Ci fermavamo a chiacchierare e a litigare per ore insieme ai miei simpaticissimi amici-nemici stalinisti. Spesso bevevamo troppo. Quando si avvicinava la mattina, tornavamo alla Normale, ci arrampicavamo sulla grata di una finestra a pianterreno, e infine ci infiltravamo attraverso un'altra finestra che un complice ci aveva lasciato aperto. L'amorevole, analcoolico, anerotico Aldo Capitini temeva che ci perdessimo nel vizio: era molto preoccupato per me, e scrisse una lettera ansiosa al direttore della Normale.
Allora (non so ora), la Scuola Normale aveva difetti che si sono prolungati negli anni. La quasi totale mancanza di spirito religioso, l'arroganza scientifica, la presunzione laica, l'idea che loro ne sapessero di più di tutti gli altri, la convinzione che la scienza appartenga a un ordine superiore, lo spirito di corpo. In realtà, all'Università di Roma, quando insegnavano Mario Praz, Santo Mazzarino e Giovanni Macchia, c'era una cultura molto più ricca, viva, e complessa. La conobbi solo più tardi.[
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Salvatore Settis sa benissimo che creare una Scuola Normale è molto difficile, e ci vuole passione, dedizione, moltissimi libri, e moltissimo tempo. Non si può inventare una Normale a Firenze o a Catanzaro o a Rieti o a Brindisi in quindici giorni, come si apre un nuovo supermercato, sebbene si possegga danaro. E' bene costruire altre Normali, ma ne conosceremo i risultati nel 2100, ammesso che tra cent'anni esista ancora quella che si chiama ricerca.
Tutti parlano, oggi, di ricerca, ma pochi sanno che la ricerca umanistica, in Europa (ma anche negli Stati Uniti) attraversa un periodo di grave crisi. Le qualità che si stanno perdendo sono proprio quelle più indispensabili alla civiltà moderna: l'esattezza, il rigore e la chiarezza della mente. Posso fare un esempio. Diciassette anni fa, un mio carissimo amico, che si occupava di Medioevo inglese e oggi sa tutto, tenne una conferenza a Freiburg, in Germania, a un congresso di medioevalistica, davanti a un pubblico di studiosi tedeschi. Parlò in inglese: tradusse le citazioni greche (quasi tutti i medioevalisti ignorano il greco), ma non quelle latine, perché si suppone che uno studioso che si occupa di Medioevo, nel quale, chissà perché, la gente scriveva e talora parlava in latino, conosca benissimo il latino. Mentre leggeva, si accorse con terrore che appena pronunciava una frase latina, molti studiosi non capivano. In questi diciassette anni, le cose sono ulteriormente precipitate.
Potrei ricordare, con dolorosa sapienza, testi storici greci con tutte le citazioni sbagliate, su cui sei giovani hanno dovuto lavorare per due anni, testi storici e filosofici medioevali con migliaia di errori di traduzione, commenti copiati da commenti di cinquanta anni prima. I colpevoli non sono giovani, innocenti ricercatori: ma i più famosi studiosi italiani, o austriaci, o olandesi, che ogni giorno prendono la parola in tutti i convegni, dalla Tasmania al Sud Africa al Canada, per esaltare la Scienza e la Ricerca.