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Repubblica: Quel che resta di destra e sinistra

Aldo Schiavone

18/03/2008
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la Repubblica

Era il 1994, e mentre nulla intorno a noi cominciava a esser più come prima, in un suo libro piccolo e fortunato Norberto Bobbio sosteneva – qualcuno lo ricorderà ancora – il carattere permanente e irrinunciabile, nonostante tutti i cambiamenti, dell´opposizione politica fra "destra" e "sinistra", e si impegnava a renderne visibile l´effettività, contro l´opinione, già allora assai rigogliosa e aggressiva, di chi avrebbe voluto seppellirla fra i relitti del passato.
Quasi quindici anni dopo – alla vigilia di un passaggio elettorale impegnativo – credo non sia inutile aggiornare i termini di quella discussione, e riproporre in modo anche radicale la domanda che vi stava alla base.
Dobbiamo partire da un dato incontrovertibile: la diffusione di uno stato d´animo – una sorta di "neoideologia italiana" – che tende a diventare ormai un radicato senso comune. E´ la rassegnazione, insieme realistica e sconsolata, di fronte a quello che definirei il prosciugamento culturale dell´agire politico, l´inaridirsi delle sorgenti ideali delle sue motivazioni. Poiché la politica sembra risultare sempre meno determinante nella costruzione delle nostre esistenze, e i suoi spazi di manovra risultano sempre più ridotti dalla presenza schiacciante di altre potenze – la tecnica, il mercato globale, le grandi reti finanziarie sovranazionali – essa (si pensa) non è più il luogo dove possano esprimersi autentiche alternative, né strutturali né di idee, ma solo dove è realistico proporsi aggiustamenti secondari, ritocchi ai margini, programmi a breve. Il luogo insomma dove quello che unisce i suoi protagonisti (e cioè la difesa di interessi e privilegi di ceto – "la casta") finisce con l´essere sempre prevalente rispetto alla trita messa in scena di quello che dovrebbe dividerli (e cioè programmi ogni volta più irrilevanti ed esangui). Ci sta sommergendo così un oceano di indifferenza e di indistinzione, sul quale galleggiano nuclei ristretti di "appartenenze" consolidate intorno all´immagine di alcuni schieramenti – sempre più povere di un´elaborazione culturale degna di questo nome: riflessi emotivi stratificati nell´abitudine, molto più che scelte razionalmente giustificabili.
Ma è davvero così? Davvero non resta che arrendersi al divorzio fra politica e idee? Davvero la politica non può più esprimere visioni del mondo contrapposte, identità alternative nette, e la confusione e la sovrapposizione sono il suo unico futuro?
A me pare che crederlo sia solo il segno di una grave patologia del nostro discorso pubblico, che ha origini lontane, e che ci sta consegnando disarmati alle prove che ci aspettano. Vi sono ancora, e vi saranno sempre di più, grandi discriminazioni culturali – vere e proprie bandiere etiche e conoscitive – in grado di fare la differenza, di caricarsi di senso, e di ridare un´anima alla politica e alle sue decisioni. Si tratta solo di sottrarle all´opacità cui le stiamo condannando. Proverò a indicarne tre, che mi sembrano anche le più importanti.
Definirei la prima come il valore assoluto dell´emancipazione umana, da considerare sempre come un fine e mai come un mezzo, rispetto alla rivoluzione tecnologica che sta offrendo possibilità impensabili sino a qualche anno fa; contro chi invece ritiene che la nostra storia debba scorrere comunque dentro limiti predeterminati – che debba essere la storia di una irriscattabile minorità. L´idea cioè che l´affrancamento della specie da ogni vincolo imposto dalla selezione naturale o dalle condizioni ambientali – l´uso liberatorio della tecnica per diventare ciò che vogliamo e non per ripetere ciò che già siamo – sia un nostro possibile e conquistabile destino; che non esistano leggi morali né confini biologici dati una volta per tutti fuori di noi; che la natura sia solo storia e quindi sempre modificabile; e che Dio sia nostro alleato in questo cammino di liberazione.
Definirei la seconda come il principio dell´eguaglianza universale delle opportunità – eguaglianza in potenza e non in atto – la cui realizzazione non può essere affidata solo alla forza congiunta della tecnica e del mercato (e dei loro protagonisti), ma va costruita attraverso il disegno razionale dell´etica e della politica – di un´etica dell´equità e di una politica che sappia farsi progetto e darsi gli strumenti per renderlo efficace; a differenza di chi crede che la spontaneità creatrice di ricchezza e di conoscenza debba esprimersi necessariamente – almeno per una lunga fase storica – attraverso l´aumento delle disuguaglianze, e che questa, in fondo, non sia questione che riguardi né la politica né l´etica.
Indicherei la terza, infine, nella convinzione che l´individualismo acquisitivo – tu sei quel che consumi – non sia l´unico modo di formazione di una personalità umana all´altezza dei tempi che ci aspettano; lontano da chi tende a contrarre l´essere umano nell´essere consumatore, e a ridurre i diritti del primo alla sfera del secondo, valutando questo modo di procedere come un accrescimento e un consolidamento del benessere collettivo. Detta in altri termini, la persuasione che si debbano favorire sfere di socialità e legami di cooperazione solidale sottratti alla razionalità del mercato; che si debbano proteggere e sviluppare, insomma, punti di intersezione dove la vita possa incontrare la tecnica – e farne buon uso – al di fuori della logica della merce e del profitto.
Francamente, avrei difficoltà a dire se, per identificare l´insieme di queste differenze, la diade (come diceva Bobbio) destra \ sinistra regga ancora, o non convenga piuttosto abbandonarla come ormai inservibile. Ma credo che commetteremmo un errore catastrofico se, decidendo di lasciarla cadere, rinunciassimo con essa alla prospettiva di una politica capace di esaltarsi nel confronto e nel conflitto fra grandi alternative – fra concezioni complessive del mondo e del futuro. Anzi è proprio la politica – la politica come dialettica della modernità – che deve favorire la nascita e il radicarsi di queste visioni. Se sapremo farlo, a cominciare dal nuovo Pd, che non deve confondere la fluidità organizzativa con la fragilità culturale – strutture "liquide", ma idee solide – sarà già un gran risultato, al di là dello stesso esito del voto. E si vedrà che sapremo parlar meglio anche di programmi: di scuola, di legalità, di salari, di fisco, di salute – di speranza.


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