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Repubblica: Ora vi racconto com´è l´università

punti di vista

10/07/2007
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la Repubblica

ENRICO BRIZZI

Negli anni del liceo, a testa bassa nella trincea dei banchi mentre intorno fischiavano i "quattro e mezzo" e i "cinque meno", si guardava ai fratelli maggiori universitari come a creature superiori e privilegiate.
Ricorderete il rispetto con cui li si osservava, questi già patentati, e poco importava che fossero iscritti a Giurisprudenza, Medicina, Ingegneria, oppure a corsi scapigliati come Scienze politiche, Fisica, o addirittura al Dams (nei licei bolognesi bastava pronunziare questo monosillabo per indurre anziane professoresse di greco a farsi il segno della croce): quei ragazzi dalle basette già folte e quelle giovani donne, veterani della nostra guerra di posizione, erano transitati attraverso il procelloso stretto della "vecchia" maturità, guadagnando così il diritto - a noi negato, anzi negatissimo - di scegliere cosa studiare.
In questa esiziale possibilità di scelta, nella diversità e personalizzazione dei loro curricula, risiedeva la loro superiorità rispetto a noialtri tardoadolescenti servi di troppi padroni, da Esiodo al diavoletto di Faraday, passando per Giolitti, la nebbiosa questione omerica e ancor più fosche nozioni di trigonometria. Poi vennero anche per noi la notte prima degli esami, le mattine stralunate degli orali e l´ultima grigliata sotto le stelle con gli ex compagni pronti a partire per le vie del mondo. Ognuno di noi fu chiamato a scegliere, e non vi sto a dire in che senso qualcuno lo fece all´ultimo minuto, e qualcun altro cambiò idea dopo pochi mesi nelle aule sovraffollate di Economia e commercio. L´essenziale è che il tempo ha concesso anche a noi di trasformarci in matricole, seduti negli anfiteatri delle aule storiche, in assemblea contro il "caro-studi" o in coda al bar dell´università, e se le nostre successive e innumerevoli vigilie d´esame sono state dedicate alla Semiotica anziché al Diritto privato o all´Anatomia, c´era poco da recriminare: noi stessi eravamo gli unici responsabili della situazione.
Personalmente, passare in pochi mesi dalle convenzioni fogazzariane del liceo (ricorderete le scarpe dalla foggia antiquata di certi professori) alle lezioni in aula uno di Umberto Eco (con i Doctor Marten´s ai piedi! Identici a quelli che calzavamo noialtri studenti modernisti e rock!), e in generale scoprire che anche la cultura pop era degna di essere studiata con strumenti adeguati, fu una sorta di accelerazione violentissima e inebriante.
Ho avuto altri ottimi professori, ma all´inizio è come se mi apparissero sotto le sembianze esaltanti di un Noam Chomsky, un Lester Bangs o una Kate Bigelow, campioni di libertà stilistica applicata prima ancora che laureati o accademici. In un certo senso, da quella prima accelerazione verso la libertà non mi sono mai ripreso, ma non è questo il punto.
Resta il fatto che quando penso all´università che vorrei, non la immagino così distante da quella che mi schiuse le porte a diciott´anni: un luogo capace di affascinare, nodo di una rete culturale transnazionale, in cui resti centrale la responsabilità dell´insegnante nel saper rinnovare quel rapporto secolare di fiducia che portava gli studenti medievali a peregrinare da un ateneo all´altro, amore studii facti exules, per seguire (a lungo pagando di tasca propria) i corsi dei professori più stimati.


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