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Repubblica: Non si uccide così un candidato? l´ultimo scandalo universitario

Raffaele Simone

14/09/2007
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la Repubblica

Dovrebbero misurare la preparazione culturale, in realtà...
In Italia sono arrivati nel dopoguerra portati dagli americani

Di per sé i test non hanno colpa del vergognoso cancan che s´è scatenato attorno a loro: prove di accesso all´università sfrontatamente truccate, selezioni falsate, graduatorie annullate e così via. Tutti questi pasticci dipendono piuttosto dal modo in cui sono gestiti dalle università e dai singoli gruppi di somministrazione (si dice così). Ciò non vuol dire però che la selezione mediante test sia del tutto innocente. Anzi, di colpe ne ha molte, anche se in giro si fa disinvoltamente finta di niente.
Il test come metodo di selezione è uno dei tanti cascami della nostra dipendenza culturale dagli Stati Uniti, come la Coca Cola, il ketchup e il gimmi five. È da lì infatti che, nei lontani anni Cinquanta, portati da qualche dirigente militare (le forze armate hanno sempre avuto una passione per questo genere di selezione), i test arrivarono in Europa. Siccome avevano una forte aria di modernità (eravamo nel dopoguerra) e davano un´impressione di efficienza, furono in molti a crederci. In Italia se ne fece vessillifero un uomo che per altri versi ha dato molto alla nostra scuola, Aldo Visalberghi (scomparso quest´anno), che nel 1955 pubblicò per le edizioni di Comunità (anche l´industria era molto sensibile al tema) Misurazione e valutazione nel processo educativo, un librettino in cui la pratica dei test trovava la sua giustificazione. Io c´ero: da studente di filosofia dovetti sorbirmi il libretto, che ricordo piuttosto plumbeo, come si commentava tra compagni che ci credevano poco. Il titolo ne indica l´angolazione: la valutazione delle prestazioni intellettuali si può fare solo dopo che le si è misurate, e per misurarle non c´è niente di meglio che un test. L´idea era sostenuta dalla fiducia di riuscire a misurare rapidamente e in modo obiettivo (cioè liberandosi dell´ombra dell´arbitrio dell´esaminatore) la preparazione di un candidato.
Si crearono sottili terminologie e dottrine che s´infiltrarono, come perdite d´acqua, in tutto l´edificio dell´educazione. Siccome su tutto aleggiava anche un´allusione all´uguaglianza, nella trappola caddero diversi spiriti democratici (come del resto era Visalberghi), che pensavano che coi test si sarebbero finalmente neutralizzate le simpatie che inducevano gli educatori a giudicare i ragazzi benestanti in modo diverso da quelli di famiglie "non-abbienti" (allora si diceva così).
A partire da quel momento, col crescere del peso dei pedagogisti nelle decisioni di viale Trastevere e col graduale tecnologizzarsi dell´educazione, i test dilagarono in una varietà di prove d´accesso per concorsi, facoltà e simili. Dalla Banca d´Italia alle selezioni militari, dai corsi di laurea "blindati" (la solita Medicina e le sue sorelle) alle prove di lingue, moltissime cose cominciarono a farsi con quel metodo. Oggi che si possono fare telematicamente su un computer la cosa ha trovato un serio rilancio.
Mentre gli esperti auspicavano, però, il popolo aveva capito. Non a caso, presso i ceti più semplici non si è mai detto test bensì quiz. L´innocuo scambio di parole allude al fatto che si percepì sin dall´inizio il carattere aleatorio, cervellotico e sottilmente vessatorio di quel tipo di prova. Ed è questa ancora l´impressione che si ha oggi quando capita di leggere le domande che vengono sottoposte ai giovani per selezionarli.
Infatti, spesso basta formulare una domanda senza darle un focus preciso perché chi risponde non capisca cosa deve fare. Inoltre i test vertono facilmente su incongrue stupidate, che il candidato sente come umilianti e a cui risponde a caso non riuscendo a vedervi alcuna sensatezza. Infine, a volte pretendono di misurare perfino l´attitudine, cioè il grado di vocazione di un giovane verso una disciplina o un´altra.
I test che si usano nelle università da poco meno di dieci anni insistono su tre tasti. Il primo consiste nel cercar di separare i totalmente analfabeti dagli altri: a questo scopo fanno domandine che a un giovane appena uscito dal liceo dovrebbero far vergogna, del tipo "si scrive socquadro o soqquadro?" Il secondo consiste nel verificare la logica e la cosiddetta "cultura generale". Qui si trovano le maggiori stravaganze, per non dire peggio: "trova l´intruso tra le seguenti parole: scoiattolo, orsacchiotto, computer, opossum", oppure: "Possiamo considerare lo sciovinismo come l´esasperazione (a) del patriottismo, (b) dell´imperialismo, (c) dell´egoismo, (d) dell´altruismo, (e) dell´integralismo?" Quest´ultima domanda viene da un test per l´ingresso a veterinaria. Il seguente dal test per l´accesso a odontoiatria: "La Fenomenologia dello spirito (1807) è (a) un´opera filosofica, (b) un trattato di geometria, (c) un´opera di edificazione religiosa, (d) un importante testo giuridico, (e) un testo di medicina?" Che cosa misurino domande come queste è oscuro.
Infine, siccome l´attitudine di una persona a far checchessia si può cogliere solo mettendola alla prova, quanto al terzo tasto i test non trovano di meglio che fare a chi, poniamo, vuole iscriversi a odontoiatria, delle domande di… odontoiatria!
Stando così le cose, si può davvero pensare che la pratica dei test sia sicura e onesta? No. Possono essere formulati male, possono essere compilati male da candidati, anche giudiziosi, che non si raccapezzano tra pretese strampalate, possono essere corretti male.
La mia opinione di professore stagionato è che i test non servono affatto ad assicurare l´obiettività e efficienza, come si credeva negli anni Sessanta. Servono solo a liberarsi di masse ingovernabili di candidati che nessuno ha voglia di incontrare faccia a faccia in colloqui articolati, e nascono da una sostanziale sfiducia nel potere della parola nell´ambiente educativo e formativo. Meglio un foglio pieno di crocette che una conversazione personale.
Quando inoltre le università italiane ricorrono a test per selezionare gli ammessi, rivelano un´altra perniciosa specie di diffidenza che è tutta nostra. Se le scuole superiori avessero l´autorevolezza che non hanno, basterebbe guardare il libretto scolastico del candidato (contenente la veridica descrizione della sua carriera, delle preferenze e delle propensioni che per anni ha manifestato e alcuni voti ben dati sulle sue prestazioni effettive) per capire se è più adatto a fare il dentista o l´agronomo, il filologo o l´esploratore. Si risparmierebbero tempo e molto denaro. Ma purtroppo del voto di maturità non si fida più nessuno, e quindi, al passaggio all´università, bisogna ricominciare tutto daccapo.


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