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Repubblica: Nella Tarradell il 90% sono stranieri

Istituto-pilota nato in modo spontaneo Barcellona

06/11/2007
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la Repubblica

Mediatori e interpreti-bambini sono pronti nelle classi
Nati in Spagna da genitori nati altrove: seconda generazione di immigrati
Cinesi, marocchini, filippini, guineiani, pachistani

CONCITA DE GREGORIO
BARCELLONA

dal nostro inviato
Un edificio anni Trenta rosa e verde come una caramella, alberi secolari intorno, centro storico della città. Sulle pareti c´è scritto «maschi» e «femmine» ma non è più vero: le classi ora sono miste. Suona la campanella, entrano correndo in cinquecento. Veli, fazzoletti, scarpe da tennis. Nove bambini su dieci in questa scuola sono di origine straniera: il 90 per cento netto. Parlano più di trenta lingue diverse, il primo giorno è uno spettacolo: cinesi con cinesi, sudamericani che chiedono indicazioni agli andalusi, filippini in disparte, pachistani eleganti che tengono le distanze dai marocchini invadenti. Guineiane coi denti di perla, bengalesi dodicenni in gruppo silenzioso. Gli insegnanti, dentro, li aspettano. Mediatori e interpreti-bambini sono pronti sulla soglia delle classi.
La scuola di Babele è il luogo dove tutti stiamo andando. Uno specchio che funziona da macchina del tempo: guardi dentro e ti vedi fra dieci anni, forse meno. È una fortuna che sia così vicina: Barcellona, Spagna, quartiere del Raval. Conviene passarci qualche giorno, studiarla ora: sarà così anche da noi molto presto, per una volta - volendo - ci si può far trovare pronti. Non è un ghetto, la «Miquel Tarradell»: istituto pilota vincitore del «Premio educazione» nel 2005, luogo di esperimenti e di conflitti, di problemi irrisolti e di successi. Vengono a visitarla da tutto il mondo proprio come negli anni Novanta succedeva con gli asili nido di Reggio Emilia. «Questa è una scuola pubblica, laica, pluralista - dice lo statuto - difende la libertà e l´eguaglianza secondo il principio di coeducazione senza discriminazione per razza né genere delle persone». Ottimi propositi, la vita poi si incarica di bagnarli nella realtà: nuovi episodi di violenza sono avvenuti negli ultimi mesi, alcuni dei professori aggrediti hanno chiesto il trasferimento, altri ne sono arrivati. Non è una passeggiata quel che succede qui: è una faticosa necessaria avventura.
Nessuno ha convogliato verso la Tarradell gli studenti di origine straniera: semplicemente è andata così. Erano meno della metà negli anni Novanta, il 50 per cento nel Duemila, sono il 90 per cento oggi: ragazzi del quartiere, bambini che vivono in queste strade. Quasi tutti sono nati in Spagna da genitori nati altrove: seconda generazione di immigrati, la più difficile. Non hai più casa nel posto da dove vieni, non sei ancora a casa qui. Certo il Raval, fra il porto e la Rambla, è un quartiere speciale: densità di popolazione doppia rispetto al resto della città, mortalità e natalità più alte, fortissima presenza di immigrati. La Cattedrale è a un passo, l´Università qui dietro. Il Macba, museo di arte contemporanea progettato da Richard Meier, confina col cortile della scuola. Un pezzo di mondo venuto a vivere nel centro gotico della capitale. Succede anche nelle nostre città: l´Esquilino, stretto fra due basiliche romane, non è diverso.
È stato difficile all´inizio. Un anno a tre mesi dall´apertura la scuola è stata chiusa e poi riaperta, tutto il personale docente e la direzione sostituiti. C´è stato bisogno di capire come fare, poco a poco. Siccome i ragazzi più grandi portavano dei coltelli a serramanico (usati soprattutto per spaventare i più piccoli) si è pensato di mettere un metal detector all´ingresso ma poi no. Poi si è scelto invece di istituire la figura dei «mediatori», uno per comunità: ragazzi, bambini che si candidano e vengono eletti dai compagni. Il preside, Albert Grau: «Sono in genere bambini più tranquilli e rispettati oppure al contrario ragazzi con precedenti violenti che conoscono il tipo di problema e sanno come intervenire a sedare le dispute. Situazioni di tensione che nascono anche dal fatto che uno dice che era gol e l´altro no». Era gol, no non era. Vittime e aggressori si riuniscono col mediatore che li ascolta, prende appunti e fa una proposta di compromesso che eviti il castigo. Funziona, il programma di «mediazione scolastica» è stato esportato in quasi tutti gli istituti con caratteristiche simili.
Ilygas e Maribel sono due mediatori. Lui ha 16 anni, è marocchino, la sua famiglia vive a Barcellona da molti anni ha un negozio nel quartiere. Si è presentato volontario, ha fatto il corso di preparazione per moderatori tenuto dal preside e da un gruppo di pedagogisti. Lavora moltissimo, lo chiamano di classe in classe a fare il giudice di pace. Maribel è guineiana, 15 anni, bellissima. È arrivata 3 anni fa, parla catalano e castigliano corretti: fra le ragazze è una star. Già, il catalano. Per sovrapprezzo i ragazzi venuti dai cinque continenti - più di cento i paesi di provenienza - fanno lezione in catalano come per legge è d´obbligo nella Regione autonoma. La nemesi storica è che dopo aver condotto una decennale battaglia culturale e politica per imporre il catalano come lingua «nazionale» (proibita da Franco, orgogliosamente rivendicata in democrazia) adesso gli studenti, in cortile, parlano castigliano. È più semplice, i sudamericani lo conoscono già gli altri lo imparano prima: è la lingua degli immigrati, è quella che unisce.
Trilinguismo, dunque. Ancora più difficile. La soluzione è stata l´istituzione delle «classi di accoglienza». Venticinque bambini per volta, due insegnanti: i nuovi arrivati restano lì indipendentemente dall´età e dal grado di istruzione, sostano nella classe d´ingresso finché non capiscono la lingua dei professori e quella del cortile. Gliele insegnano gli altri bambini. Se il nuovo venuto è cinese (entrano a scuola a novembre, a febbraio: arrivano ogni settimana durante tutto l´anno) gli si mette accanto un altro ragazzino cinese un po´ più grande e un po´ più esperto, uno che traduca per lui. Leilei Ma è qui dall´anno scorso, non parlava una parola né di castigliano né di catalano. È stato affidato a Jiada Li, 15 anni, timida e graziosa. Ora che lei ha lasciato la scuola per frequentare un corso di assistente socio-sanitaria lui l´ha sostituita: può già fare da mentore ai più piccoli. E lui adesso l´interprete per i nuovi arrivati.
Laura Arestè è l´insegnante di educazione fisica delle classi di Secondaria, da 12 a 17 anni. Nelle sue ore di lezione è più facile osservare come i ragazzi - durante le attività sportive - si comportino in gruppo. «All´inizio stanno in nuclei omogenei per nazionalità, è solo dal terzo o quarto anni che si sviluppano amicizie sulla base della simpatia e del carattere. Allora i gruppi si mescolano». Tre-quattro anni, è dunque questo il tempo che serve all´integrazione. A ginnastica le bambine marocchine portano il velo ma lo cambiano prima di entrare in palestra, ne scelgono uno di colore intonato alla tuta. Le pachistane lo mettono come un foulard appoggiato alle spalle. Le filippine stanno in disparte, indossano abiti comodi (non tute) e mai le scarpe da ginnastica. Le sudamericane hanno t shirt che mettono in mostra l´ombelico e pantaloni di lycra. I ragazzi pachistani sono i più eleganti, «curiosi attenti e timidi, un poco altezzosi. Si considerano portatori del vero spirito musulmano e si tengono lontani dai marocchini, difficilmente stringono amicizia con loro. I marocchini del resto sono la comunità più antica della città: hanno una sorta di mentalità mediterranea che li rende più simili agli spagnoli, sono ciarlieri e aperti». La professoressa parla di «famiglie»: la maggior parte dei ragazzi fa parte di nuclei familiari molto numerosi, convive a scuola con fratelli sorelle cugini. I genitori, al contrario, non si vedono quasi mai. Racconta l´insegnante: «Avevamo convocato i parenti di Kowshik, 16 anni, ragazzino indù del Bangladesh tra i più studiosi e attenti dell´istituto. Il padre, invalido, non poteva muoversi. La madre si vergognava a venire, parla solo bengali. Un giorno finalmente ha lasciato a casa gli altri sei figli ed è venuta accompagnata da Kowshik. È stato lui, con molto imbarazzo, a fare da interprete descrivendo alla madre i nostri elogi per le sue qualità di studente. Ha avuto una borsa di studio di 50 euro al mese che gestisce da solo: si compra scarpe da ginnastica, matite e quaderni». Pepa, la dirigente organizzativa, conferma: sono sempre i figli a fare da interpreti ai genitori e comunque «i familiari coinvolti nella vita scolastica sono meno del dieci per cento degli invitati». Gli adulti non vanno. È nelle mani dei ragazzi il futuro dell´integrazione.
A fine anno le pagelle. Nelle classi di accoglienza non ci sono promossi né bocciati. La valutazione è di due soli tipi: PA o NM. Sigle che significano «progredisce adeguatamente» e «deve ancora migliorare». A 17 anni escono dalle superiori. Pochissimi fra i ragazzi di origine straniera si iscrivono all´università: per ora poco più di 5 su cento. Tra di loro c´è Peter, filippino. Vive a Barcellona da cinque anni, è tra gli studenti migliori dell´istituto, catalani compresi. Gli insegnanti gli hanno assicurato che è in grado di sostenere gli esami per essere ammesso alla Facoltà che ha scelto, se necessario lo aiuteranno durante l´estate. Ha detto ok, darà l´esame. Vuol fare il medico. «Sarò medico», dice anzi. Usa il futuro semplice, nessuna forma ipotetica. Sarà medico. Meno di dieci anni e arriveranno tutti gli altri.
(ha collaborato
claudia cucchiarato)


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