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Repubblica: Negozi, cinese e arabo cancellati dalle insegne

L’italiano che la Lega sta inventando, a colpi di emendamenti come quello proposto ieri sulla lingua del commercio, è uno sproposito.

24/04/2010
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la Repubblica

Francesco Merlo

IL SASHIMI a Verona lo venderanno sotto il nome di pesse cruo, il kebab a Napoli sarà o piecoro fatto a felle e la bottega di sushi, in italiano ‘involtino di riso e pesce’, a Palermo diventerà sfinciuni. L’italiano che la Lega sta inventando, a colpi di emendamenti come quello proposto ieri sulla lingua del commercio, è uno sproposito.

La parodia della famosa e già ridicola purificazione fascista, quando al posto di bar fu imposto mescita, i magazzini Standard divennero Standa, il film era la pellicola e un artista di nome Rachel dovette cambiarsi in Rascel (resistendo a Starace che voleva imporgli addirittura Rascele disse: «forse che Manin diventerà Manino?»)
Davvero non ci danno pace i creativi leghisti. Vogliono dunque abolire le insegne in lingue extracomunitarie, tradurle in italiano coltivando l´illusione violenta e impossibile di oscurare i cartelli per strozzare le culture di riferimento, non vedere più le tracce dei cinesi, dei tailandesi e dei musulmani come primo passo verso la loro abolizione, vessarli intanto con il manganello della lingua italiana o peggio ancora del dialetto locale perché la differenza con il fascismo è che alla nazione è stato sostituito il paese, all´Impero il Condominio, alla Lupa di Roma il Pitu (tacchino) di Scurzolengo, al salto nel cerchio di fuoco la gara dei birilli delle donne cuneesi e all´olio di ricino il nativismo e il folklore bergamasco.
Di sicuro l´emendamento proposto ieri è la fotocopia di quel decreto del 1938 che puniva «con una multa da cinquecento a cinquemila lire quei negozianti che vendono prodotti con marchi e diciture straniere». Erano i tempi in cui era obbligatorio darsi del voi e persino la rivista ‘Lei´ dovette cambiare la testata in Annabella («forse Galilei deve diventare Galivoi?» scrisse il giornalista – fascista – Paolo Monelli). Allo stesso modo i leghisti vogliono purificare la lingua non dagli anglismi della perfida Albione e dai francesismi incipriati ma dalle influenze arabe e dunque, se studiassero un po´, cancellerebbero un terzo del nostro vocabolario: niente più algebra e moka per esempio, e niente più arancia e ammiraglio, via pistacchio aguzzino zucchero e azzurro e basta persino con lo zafferano del risòtt; aboliremo Caltanissetta e bisognerà riscrivere la toponomastica e l´onomastica, dovremo rivedere la geografia e la storia oltre che la gastronomia.
Già il votatissimo Luca Zaia, quando era ministro dell´Agricoltura, spiegò a un allibito giornalista del Guardian che l´Italia, non solo per alimentare il consumo e la produzione interna, voleva e doveva tornare alla tavola italiana e che nelle cucine leghiste era già stato preparato il kebab «tutto italiano» negli ingredienti e anche nel nome: muntun afetà.
Ma c´è poco da ridere se si pensa alla trasversalità di questa sottocultura fascio-leghista che lambisce e intride la nostalgia alimentare della sinistra, la quale scopre sia la presunta raffinatezza della cucina dozzinale e sia la necessità del dialetto meneghino, il formaggio con le pere e il mugugno del villaggio brianzolo contro la dialettica dei dialetti e dei cibi imperiali: americano, arabo, cinese, russo, indiano, turco-ottomano.
Anche l´idea di sottoporre a un esame di lingua italiana i commercianti extracomunitari, che a prima vista sembra un pochino più sensata ed è certamente meno ridicola, in realtà finisce con l´essere un´altra tracimazione rancorosa, un´altra delle volgarità gratuite che stanno sapientemente avvelenando il paese. A Tonco di Asti e a Rho è più importante che sappiano usare il congiuntivo i commercianti extracomunitari di magliette o i compratori locali di magliette, quelli che le vendono o quelli che le indossano?
Non ci piace fare il solito spirito sui Bossi, padre e figlio, e sui leghisti che umiliano la lingua italiana pur facendo mestieri più significativi e ben più prestigiosi come il ministro e il consigliere regionale. Ma colpisce che impongano la conoscenza dell´italiano agli stessi extracomunitari che pretendono di tenere lontani dalle nostre scuole sempre più orientate verso un modello regionale e xenofobo. La scuola della Gelmini vuole contingentare gli stranieri, cacciare i professori terroni dal Nord, sottoporre tutti gli insegnanti all´esame di meneghino, di vicentino e di torinese, con l´obiettivo – l´abbiamo già detto altre volte – di avere una scuola "parteno-siculo – borbonica", un´altra "brianzola-austriacante" e un´altra ancora "papalina-tiberina". I soli a dovere imparare l´italiano sono dunque i "vvu cumpra´" che chiedono la licenza di vendere braccialetti, cinturini d´orologio e cibi etnici. Li mettessero davvero in condizioni di imparare la lingua invece di imporre un esame vessatorio come fosse un anello al naso! L´arroganza linguistica ha sempre alimentato l´odio. C´è, per esempio, un rapporto tra le foibe e l´imposizione fascista dell´italiano in Istria. La lingua e dialetti, che sono ricchezza, possono anche diventare randelli e arcaiche violenze, fetori che appestano le comunità internazionali, ammorbano il mondo che va avanti a contaminazioni e meticciati.

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