Repubblica/Napoli: Ricercatori universitari, il successo è in viaggio
Il malcostume fondamentale dell´università italiana è la generalizzata accettazione dell´idea di giovani vincolati al docente di tesi di laurea nel lungo percorso che lo attende verso un "posto" all´università.
SANDRO IANNACE
in una delle sue invenzioni comiche più intelligenti, l´indimenticabile Massimo Troisi faceva dire, al giovane napoletano che, in cerca di cambiamento, aveva lasciato la sua città per Firenze: "Ma insomma, nu napulitano nun pò viaggià, pò sulo emigrà?". Il tormentone della "fuga dei cervelli" riporta alla mente la sequela di personaggi che non riuscivano a non etichettare il napoletano in viaggio come emigrante. Per cui (e mi perdoni Troisi), viene da dire: "Scusate, ma un ricercatore italiano non può viaggiare, può solo fuggire?".
Il rinnovamento dell´università italiana dovrebbe spazzare via in primo luogo alcuni luoghi comuni che affondano in un cronico provincialismo, ancora imperante nonostante la gran copia di ricercatori italiani realmente cosmopoliti e apprezzati in giro per il mondo. Nella vita di un ricercatore, il continuo cambio di sede dovrebbe essere la norma, piuttosto che l´eccezione, e una spia del successo, piuttosto che del fallimento. Se guardate il curriculum di gran parte dei ricercatori dei paesi leader della ricerca scientifica, troverete storie di migranti che non sono stati costretti a lasciare le sedi di partenza perché costretti da malcostume o mancanza di opportunità, ma solo perché cittadini di un mondo globale nel quale la ricerca dell´eccellenza prevede un fecondo interscambio di idee su scala planetaria.
Il malcostume fondamentale dell´università italiana è la generalizzata accettazione dell´idea di giovani vincolati al docente di tesi di laurea nel lungo percorso che lo attende verso un "posto" all´università. Percorso che prevede un calvario di attese per contratti di ricerca sottopagati, e lunghi periodi di "collaborazione" non pagata, che di fatto significa puro asservimento. La cosa grave è che in questo percorso il docente è convinto di beneficare il giovane che a sua volta, distorsione somma, accetta questa situazione come "gavetta" necessaria, in attesa di essere ripagato un giorno con il mitico "posto" a seguito di regolare concorso. Concorso che a quel punto si ritiene di dover vincere in barba a qualsiasi altra considerazione, se non quella di un diritto acquisito con anni di fedeltà.
La perversione dei concorsi universitari è tutta lì, nel premiare quasi sistematicamente coloro che non hanno cercato, o non erano all´altezza di cercare, opportunità in altre sedi nazionali e straniere. Figli di un sistema che non privilegia lo scambio di cervelli (non la fuga) e l´indipendenza, fattori di arricchimento del sistema nel suo complesso, ma la stagnazione, la fedeltà, l´appartenenza.
Pochi coraggiosi interventi potrebbero costringere il sistema a riposizionarsi interamente su un nuovo standard, attivando le numerose intelligenze presenti nell´università, e avviando un cambio di mentalità generale. E queste cose devono riguardare le primissime fasi di accesso dei giovani alla ricerca. In giro per il mondo la ricerca la fanno i giovani con i dottorati e le borse post dottorato, che non si sentono affatto "precari" perché considerano un´opportunità l´essere inseriti in un progetto di ricerca, regolarmente finanziato a un professore in base alla sua riconosciuta capacità di produrre risultati.
Per il professore il dottorando è la risorsa, un collaboratore sul quale investire i soldi della sua ricerca, perché dell´esito di questa dovrà render conto all´ente finanziatore, privato o pubblico che sia. Avere un dottorando brillante è una fortuna per un docente, laddove in genere in Italia lo studente viene messo nelle condizioni di pensare di "dovere qualcosa" a chi lo ha accolto nel proprio gruppo. Questo perché in Italia i posti di dottorato non sono in alcun modo relazionati a ricerche finanziate e seguono l´iter di ogni "regolare" concorso universitario: vincono quelli "segnalati" alle commissioni, il che significa certamente tanti validi studenti che saranno messi a lavorare su ricerche di punta finanziate, ma anche tanti mediocri che il loro relatore di tesi coinvolgerà in pseudo-ricerche di scarsa rilevanza. E che diventeranno dopo il dottorato i "precari" della ricerca in attesa di stabilizzazione.
Bisogna eliminare i "posti" di dottorato distribuiti per concorso e su numero fisso stabilito dalle università. I dottorati devono essere finanziati dalle ricerche stesse (avviene così più o meno dappertutto) e il docente responsabile dei fondi deve essere libero di scegliersi, nel suo orto o in giro per il mondo, lo studente che meglio potrà portare avanti tali ricerche.
Ovviamente bisogna immaginare un organismo nazionale che finanzi la ricerca pubblica e che eroghi le somme sufficienti per finanziare la borsa come parte integrante della ricerca. E che ovviamente dopo pretenda risultati concreti dai quali far dipendere le future assegnazioni allo stesso docente. Alla fine di tal percorso, si prevedano borse post-dottorato da erogare solo a studenti provenienti da altri atenei. Si introdurrebbe in tal modo una regola semplice che scardinerebbe la costruzione dei clan e favorirebbe lo spirito di indipendenza del giovane ricercatore.