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Repubblica: Levi Montalcini: coltivate la mente

Regine del Nobel

16/04/2006
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la Repubblica

L´INCONTRO

Tra una settimana compirà 97anni ma agli anniversari e all´età non ha mai dato alcun peso, perché il suo modo di esercitare il pensiero non è cambiato negli anni. Perché "quell´organo magnifico che è il cervello se lo coltivi funziona". Ha appena pubblicato un altro libro, dedicato a uno dei temi che le stanno più a cuore, la rivoluzione digitale e i "nuovi magellani": i giovani navigatori sulle vie della conoscenza che sfruttano le potenzialità di Internet
La mia vita è stata ricca di ottime relazioni umane, lavoro e interessi Non ho mai sperimentato cosa volesse dire la solitudine
LEONETTA BENTIVOGLIO

Roma
Pochi sanno essere vecchi, sentenziò La Rochefoucauld. Di quei pochi la sovrana è Rita Levi Montalcini, che tra una settimana - il 22 del mese - compie 97 anni, «però che importa, io non ho mai dato alcun peso agli anniversari e ai festeggiamenti», avverte lei quieta e splendente nel sala riunioni della sede della fondazione che porta il suo nome. Il luogo ferve di attività e colori: computer accesi, donne al lavoro gentili e sorridenti, pareti tappezzate dai quadri di Paola Levi Montalcini, gemella adorata di Rita, tanto che «quando, il 29 settembre del 2000, il suo polso cessò di battere sotto la mia mano», confessa lei, «ho pensato che anche la mia vita fosse giunta al termine».
La gloriosa scienziata, premio Nobel per la medicina nell´86, appare come una signora minuta e decisa. Il piglio è principesco, l´eleganza è molto piemontese: asciutta, senza sfarzo; ma curatissima nei dettagli. Capigliatura bianca modellata con morbidezza e amore, piccoli e raffinati gioielli al collo e ai polsi, scarpe molto femminili, con il tacco alto. Il portamento è eretto, la pelle è diafana. Ha la luce di un antico cammeo. L´abito è un Capucci nero e setoso, tagliato d´incanto, con sottili bordi verdi che sottolineano il collo all´orientale. Da sempre le piace essere vestita bene: «Che vuole, non potendo cambiare me stessa cambio il vestito».
La voce è limpida, la conversazione è lucidissima. «Credo che il mio cervello, sostanzialmente, sia lo stesso di quand´ero ventenne. Il mio modo di esercitare il pensiero non è cambiato negli anni. E non dipende certo da una mia particolarità, ma da quell´organo magnifico che è il cervello. Se lo coltivi funziona. Se lo lasci andare e lo metti in pensione si indebolisce. La sua plasticità è formidabile. Per questo bisogna continuare a pensare».
E infatti Rita lavora sempre, instancabilmente, occupandosi di Ebri, l´istituto europeo di ricerche sul cervello di cui è stata ispiratrice ed è presidente, e della fondazione a lei intitolata che reperisce finanziamenti da destinare all´istruzione delle donne che vivono nell´emisfero Sud del mondo. «Certo, con l´età qualche limitazione ce l´ho anch´io. Da qualche tempo ho gravi problemi di vista. Però col video ingranditore riesco ancora a leggere, anche se con più lentezza di prima. In passato mi alzavo alle quattro del mattino (ho sempre dormito poco) e alle nove avevo già letto cento pagine. Ora, nello stesso arco di tempo, riesco a leggerne una decina. Il che non m´impedisce di scrivere libri».
L´ultimo, I nuovi magellani nell´er digitale, firmato con la «la mia carissima collaboratrice Giuseppina Tripodi» e appena pubblicato da Rizzoli, è dedicato a uno dei temi che più le stanno a cuore: le potenzialità offerte dalla rivoluzione digitale a coloro che definisce, appunto, «i nuovi magellani». Navigatori sulle vie della conoscenza, paladini della cooperazione globale. «Oggi i giovani», dice, «devono affrontare realtà drammatiche come la povertà, il razzismo, l´analfabetismo, la negazione dei diritti civili in molti paesi. Lo sviluppo tecnico e scientifico ha aperto spazi sterminati all´esplorazione, e le nuove generazioni potranno utilizzarli al meglio. Non bisogna aver paura dell´informatica, perché da sempre il progresso è portatore di cultura e di democrazia. Occorre sfruttare le potenzialità di Internet per metterle al servizio dei popoli più svantaggiati».
È anche grazie a discorsi come questi che Rita Levi Montalcini è diventata una sorta di icona giovanile. Ogni sua apparizione nelle università è accolta da festosi applausi. La sua presenza è simbolo d´impegno umanitario, rivendicazione di valori condivisi, specchio di sapere profondamente laico, apertura di nuovi orizzonti, bandiera del cammino di emancipazione delle donne. Sensibile alle tragedie del Terzo Mondo, e battagliera nel promuovere la consapevolezza degli immensi benefici dell´istruzione, Rita si adopera soprattutto per la parte di umanità che si dimostra ancora come più fragile, quella femminile. «È impressionante che nel mondo ci siano 880 milioni di analfabeti. Bisogna dare alle donne la possibilità di usare il cervello, insegnare loro a utilizzare gli strumenti dell´informatica. Adoperarsi in questa direzione è un obbligo. La mia fondazione, di recente, ha attribuito 800 borse di studio alle donne africane nelle varie fasce di età: prescolare, scolare, universitaria e post-universitaria. Per la componente femminile del genere umano è giunto il tempo di assumere un ruolo determinante nella gestione del pianeta. La rotta imboccata dal genere umano sembra averci portato in un vicolo cieco di autodistruzione. Le donne possono dare un forte contributo in questo momento critico».
È così ottimista sul genere femminile? Cosa risponde a chi sostiene che le donne occidentali, in ambito lavorativo, rischiano di assumere i peggiori vizi maschili? «Rispondo che quando si è affamati da troppo tempo, e si ha la possibilità di accedere a un cibo, lo si utilizza più di quando si è saturi. Alla donna è mancato tutto. Io ne so qualcosa. Mio padre aveva deciso che mio fratello doveva andare all´Università, mentre le sue tre figlie erano destinate alle scuole femminili per affrontare il ruolo che spettava loro di future mogli e madri. Alla donna, da bambina, nell´era vittoriana, si insegnava ad essere graziosa e gentile. Che ingiustizia. Ne ho sofferto moltissimo».
La propria infanzia, età ingenerosa, segnata dal rapporto col padre troppo autoritario, Rita se la ricorda bene. «Mi sentivo inferiore da ogni punto di vista, intellettuale e fisico. Intellettualmente il mio idolo era Gino, il fratello più grande, mentre Paola, la mia gemella, era molto portata per l´arte. Tra loro due ero come il brutto anatroccolo, perennemente giudicata e inibita da un padre severo, che mi incuteva timore. Ogni suo desiderio doveva essere esaudito. È stato questo a farmi decidere di non sposarmi mai. Avevo tre anni quando ho pensato: da grande non farò la vita che sta facendo mia madre. Mai avuto più alcuna esitazione o rimpianto in tal senso. La mia vita è stata ricca di ottime relazioni umane, lavoro e interessi. Non ho mai sperimentato cosa volesse dire la solitudine».
Il fatto di non avere avuto figli non le manca. Chiama «mio figlio» l´NGF, sigla della proteina che stimola la crescita delle cellule nervose. È la scoperta che l´ha condotta al Nobel. La storia è nota: nonostante la sfiducia paterna, Rita studiò brillantemente a Torino, la sua città, specializzandosi in neurobiologia e diventando l´assistente di Giuseppe Levi, «persona molto simile a mio padre per autoritarismo. Aveva un grande fascino su di me, anche se più dal lato umano che scientifico. I suoi metodi erano vecchio stile, ma ne ammiravo il valore morale e culturale». Poi Rita Levi Montalcini, con le leggi razziali, fu costretta a rinunciare al posto di assistente universitaria: non aveva neppure accesso alle biblioteche. Oggi afferma che l´essere ebrea non è mai stato per lei motivo né di orgoglio né di umiliazione: «Non sono ortodossa, non vado mai in sinagoga. Sono totalmente laica, non ho ricevuto alcuna educazione religiosa. Mio padre ci diceva: siate liberi pensatori. Per me quello che conta, in una persona, non è che sia ebrea o cattolica, ma che sia degna di rispetto. E sono convinta che non esistano le razze, ma i razzisti».
Anche durante le persecuzioni razziali Rita continuò a lavorare, allestendo un piccolo laboratorio nella casa in cui viveva, nell´astigiano. E dopo la guerra accettò l´invito ad andare a proseguire le sue ricerche negli Stati Uniti. Fu nel 1951, alla Washington University di St. Louis, che la ricercatrice osservò per la prima volta l´effetto esercitato dal trapianto di un tumore di topo sul sistema nervoso dell´embrione di un pulcino. Quel fenomeno, la cui scoperta le avrebbe fatto meritare il massimo riconoscimento per una scienziata, fu chiamato il "Nerve Growth Factor". «Ci arrivai con la fortuna e l´istinto. Conoscevo in tutti i dettagli il sistema nervoso dell´embrione e ho capito che quello che stavo osservando al microscopio non rientrava nelle norme. Una vera rivoluzione: andava, infatti, contro l´ipotesi che il sistema nervoso fosse statico e rigidamente programmato dai geni. Per questo decisi di non mollare».
Se le si chiede del suo affetto più grande, torna con entusiasmo e commozione il nome di Paola, la sorella artista. La loro corrispondenza, documentata nel bellissimo epistolario di famiglia raccolto nel volume Cantico di una vita (Raffaello Cortina Editore), è una vicenda emozionante di scambi, affinità, intrecci di affetto e pensiero. Arte e scienza come viaggi paralleli. Su Paola, dopo la sua morte, per rivendicarne la grandezza di artista ed esorcizzare il dolore della perdita, Rita scrisse un libro appassionato, Un universo inquieto (Baldini e Castoldi). L´apprendistato con Felice Casorati, l´isolamento nel dopoguerra, il passaggio al non-figurativo e all´astratto, l´approdo a tecniche non pittoriche e alle opere più recenti, strutture cinetico-luminose, di metallo e rame: tutto converge nel ritratto di una donna libera e schiva, che lavorò svincolata dagli schemi. «Paola non è stata valorizzata quanto meritava, ma a lei non importava nulla dei mercanti. Ora che è scomparsa si moltiplicano i riconoscimenti. In giugno, a Roma, ci sarà una mostra delle sue opere. Ne seguiranno una a New York e un´altra a Los Angeles».
«L´universo inquieto» di Paola ha conservato a lungo, per la scienziata, una componente misteriosa. «Quando vivevo in America, mi chiedevo se un mio rientro in Italia mi avrebbe dato modo di godere della sua vicinanza e di comunicare con lei. Mi domandavo se saremmo finalmente vissute vicine, godendo del vincolo affettivo che ci ha sempre legate, e se avrei avuto accesso al mondo da cui Paola attingeva la sua straordinaria capacità creativa». Rita tornò in Italia, e Paola venne a vivere a Roma con lei. In seguito, nei lunghi anni di convivenza, Rita sentì di aver superato quella barriera. Perché, come nel cammino di arte e scienza, «due rette parallele si incontrano all´infinito».


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