Repubblica-La vita difficile dei bambini di periferia
La vita difficile dei bambini di periferia CORRADO AUGIAS CARO Augias, sono una semplice maestra, insegno da 22 anni in una scuola elementare di un quartiere periferico considerato "zona a...
La vita difficile dei bambini di periferia
CORRADO AUGIAS
CARO Augias, sono una semplice maestra, insegno da 22 anni in una scuola elementare di un quartiere periferico considerato "zona a rischio di dispersione scolastica". Scuola a tempo pieno, per fortuna, campo di calcio, parrocchia: uniche risorse sociali del quartiere. Vent'anni fa c'era più povertà, più analfabetismo, ma anche più motivazione, più voglia di lottare, di migliorare. Oggi girano più soldi, magari illecitamente, ma c'è meno motivazione.
Entro in classe già preoccupata di non farcela a contenere 16 bambini nevrotici, ansiosi, disorientati, eccitati, agitati, incontinenti, bellissimi, incapaci di aspettare anche per pochi secondi il soddisfacimento dei propri bisogni. Bambini con mille domande sulla bocca, urlate sulla voce degli altri, e disinteressati alle risposte. Ci vuole troppo tempo, sono abituati ai quiz: sì/no.
Bambini sicuramente amati dai genitori, ma non ascoltati perché a casa non si parla. O si urla, o si tace, o si guarda la tv, o si gioca con la play-station. Bambini accontentati perché così "non rompono". Puniti quando disturbano ma non perché abbiano fatto qualcosa. Non puniti invece quando si dovrebbe. Bambini che arrivano a scuola senza limiti, senza regole. Bisognerebbe educare ai sentimenti, al controllo delle emozioni, ad esprimersi con le parole e non con parolacce e aggressività, a dire "buongiorno" perché è bello salutarsi con simpatia, con affetto se possibile. Invece si vergognano di essere gentili, di mostrarsi educati.
La vita in periferia è difficile, è bene essere duri fin da piccoli. Io insegno il dialogo, il confronto civile, la condivisione, l'amicizia, l'accoglienza del diverso, trattandoli con affetto perché sono convinta che prima della storia e della geografia viene la socializzazione, lo stare bene a scuola. Ma ciò che insegno è fuori tempo, lontano mille miglia dal loro quotidiano, non confermato a volte nemmeno in famiglia, sicuramente non nella società. Qualche volta pensate anche alle maestre. Quello di buono che riescono a fare lo hanno appreso con il buon senso, l'intuizione, l'esperienza, ascoltando, vivendo, condividendo in classe il dolore di quest'infanzia rubata.
Clelia Forgnone
Roma
LA SITUAZIONE descritta in questa lettera forse la sapevamo già, quanto meno potevamo intuirla da tanti piccoli episodi che la cronaca di tanto in tanto riferisce. Si dice, diciamo tutti spesso, che la scuola è vecchia, distaccata dalla vita, un mondo a parte. Poi si leggono lettere come questa e ci si chiede se, almeno in certe situazioni di disagio, non sia un bene che la scuola non assomigli alla vita come la maestra Forgnone ce la descrive: le case in cui o si urla o si tace, dove non entra un libro e le serate passano con gli occhi incollati allo schermo della tv o alla play-station. Con quei bambini "corrotti" dai quiz, risposte rapide a domande insignificanti, senza ragione, senza contesto, puro esercizio (ben che vada) della memoria. Non so se il mio forte pessimismo sul futuro (intellettuale) di queste generazioni a rischio sia esagerato. Può darsi, lo spero. Poi però mi accade di pensare che far crescere dei giovani sempre meno allenati al giudizio, annegati nelle play-station o nel pallone interessa troppe persone, e che questo potrebbe spiegare molte cose.