Repubblica-La versione di destra del nuovo capitalismo -di E.Scalfari
PRENDENDO a prestito dalla letteratura francese due frasi topiche per descrivere la situazione attuale del capitalismo potremmo dire les héros sont fatigués o meglio ancora les dieux s'en vont; s...
PRENDENDO a prestito dalla letteratura francese due frasi topiche per descrivere la situazione attuale del capitalismo potremmo dire les héros sont fatigués o meglio ancora les dieux s'en vont; solo che qui non si tratta d'eroi e tantomeno di dei ma di furbi quanto volgari bancarottieri, truffatori e nel migliore dei casi arrampicatori sulle fortune altrui; oppure più banalmente di manager e imprenditori incapaci d'affrontare i tempi duri e la fine della "bonanza" che per dieci anni li ha tenuti sulla cresta dell'onda senza alcun loro merito.
I casi, pur diversi tra loro, costellano ormai tutto il firmamento della business community al di là e al di qua dell'Atlantico, la nuova e la vecchia economia, le blue chips e il Nasdaq, le imprese emergenti e quelle mature: Enron, naturalmente, e Worldcom, ma con loro e prima di loro Tyco, Adelphia, Global Crossing, la Telecom tedesca e quella francese, Alcatel, e tante altre fino ad arrivare alla Fiat.
Qualcuno aveva mai pensato appena sei mesi fa che le obbligazioni Fiat avrebbero sfiorato nel giudizio delle grandi società di rating la definizione di "titoli spazzatura"? Si sono salvate per ora dal rotto della cuffia ottenendo un Baa3 che fino a poco tempo fa sarebbe stato vissuto come un'onta impensabile.
E qualcuno avrebbe mai pensato, ancora agli inizi del 2002, che il circuito virtuoso che finanziava con i soldi di tutto il mondo il deficit commerciale americano, il rialzo di Wall Street, il disavanzo del bilancio federale e la tenuta del dollaro, si sarebbe improvvisamente interrotto mettendo in crisi per la prima volta dopo trent'anni un equilibrio che il resto del mondo criticava ma al quale s'era conformato e che rappresentava comunque il pilastro centrale di tutta la finanza mondiale? Ce n'è dunque abbastanza per avviare un discorso non solo sulle caratteristiche della crisi attuale, sul modello americano e su quello europeo, sulle tensioni sociali che emergono da questo sconquasso, ma sulla questione del capitalismo, perché di questo si tratta.
Il capitalismo è un sistema estremamente flessibile e per questo è sempre riuscito a superare le tante crisi di crescita e di declino che l'hanno più e più volte impattato.
Ne è uscito diverso in una società diversa che aveva contribuito a modificarlo e ne era stata a sua volta modificata.
Oggi siamo all'ennesimo di questi tornanti ma è mancata finora una riflessione profonda da cui possa nascere una variante nuova del sistema.
Eppure è lì il punto centrale su cui occorre riflettere: si ripropone in termini affatto nuovi la questione del capitalismo, del suo rapporto con le istituzioni politiche, con la democrazia, con la produzione di valore.
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Il capitalismo del XIX secolo produceva valore - cioè accumulava ricchezza e la distribuiva - valendosi di diversi elementi: la messa a cultura di nuove terre fertili, l'innovazione tecnologica, la libertà del commercio, la crescita demografica, la totale flessibilità del lavoro, i bassi salari, un'elevata disoccupazione e sottoccupazione. Il coronamento istituzionale fu la monarchia costituzionale, il suffragio ristretto, i principi del liberalismo conservatore.
Il sistema entrò in crisi (crisi di crescita e di trasformazione) con la nascita delle associazioni sindacali e del movimento operaio, con le prime crisi cicliche nell'agricoltura e nell'industria manifatturiera, con l'avvio della produzione di massa stimolata da nuove tecnologie di prodotto e non più soltanto di modi di produrre.
Anche le modalità della produzione di valore registrarono modificazioni profonde in quell'arco di anni che sta a cavallo tra il XIX e il XX secolo: guadagnò terreno il protezionismo delle industrie di base, salì il livello medio del salario reale, si posero per la prima volta problemi di sostegno attivo della domanda, le banche entrarono robustamente nel sistema come elementi propulsivi dell'industrializzazione nei servizi e nelle manifatture.
Il suffragio elettorale gradualmente s'estese, le associazioni sindacali e il movimento operaio si radicarono nella società. Si passò dal liberalismo conservatore alla democrazia, con alcuni rilevanti intervalli di democrazia autoritaria che non arrestarono tuttavia e anzi in certi casi accelerarono l'evoluzione sociale del sistema. Continuò ad accrescersi sempre più il ruolo propulsivo delle banche. Crebbe la produttività media e il livello d'innovazione dei prodotti.
È l'età bismarckiana in Germania, vittoriana in Inghilterra, della Terza repubblica in Francia, del giolittismo in Italia. L'America era in piena esplosione dell'industria petrolifera, della siderurgia, della meccanica e dell'immigrazione da tutto il mondo, ma la moneta chiave era ancora la sterlina.
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La Prima guerra mondiale travolse i "fondamentali" istituzionali e strutturali di questa versione del capitalismo, ne accentuò il carattere protezionistico e nazionalistico, modificò le modalità della produzione di valore. In realtà il sistema si trovò di fronte per la prima volta al problema della distruzione di valore: crollo delle Borse, fallimenti a catena delle maggiori istituzioni bancarie, disordine sul mercato dei cambi, disoccupazione di massa, caduta dei salari reali, caduta della domanda interna e internazionale.
Si pose a questo punto, in concomitanza con gli eventi del comunismo russo e della sua influenza planetaria, la questione della sopravvivenza del capitalismo.
In realtà non era di questo che si trattava bensì della più rilevante trasformazione del sistema che in Usa e in Gran Bretagna avvenne accentuando la convivenza tra capitalismo e democrazia, nell'Europa continentale apparentando capitalismo e dittature totalitarie e preparando la catastrofe che sarebbe culminata nella Seconda guerra mondiale.
Nasce comunque tra le due guerre il tema centrale del sostegno della domanda, effettuato attraverso la manovra del cambio, della massa monetaria e di politiche attive d'intervento pubblico attraverso programmi massicci di lavori pubblici e d'acquisizione diretta di aziende. S'estese dovunque l'intervento dello Stato nell'economia, emerse l'industria degli armamenti con le sue ricadute tecnologiche
Finita la guerra s'impose la dittatura del dollaro come unica moneta mondiale. Nasce in Europa il welfare State d'impronta socialdemocratica. In Usa esplode il fordismo e la politica di alti salari come conquista sindacale ma soprattutto come sostegno alla domanda interna. Questi meccanismi si propagano in tutta Europa, coniugati con sistemi di protezione sociale, sanitaria, assicurativa. Domina ovunque, nell'Occidente industriale, l'obiettivo della piena occupazione. Aumenta drammaticamente la disparità tra paesi ricchi industriali e mondo povero e contadino.
Questa situazione, contraddistinta politicamente dalla divisione del mondo in due blocchi, dall'equilibrio atomico e dalla Guerra fredda, si conclude con l'implosione dell'impero sovietico e il crollo del Muro di Berlino. Comincia la nuova fase che ripropone la questione del capitalismo. È la cronaca degli ultimi tredici anni, dall'89 a oggi.
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Non volevo certo fare un "bignamino" sull'evoluzione (e l'involuzione) del sistema, ma mi pareva necessario seguire sinteticamente le diverse varianti del capitalismo soprattutto nei suoi rapporti con le istituzioni e con la produzione di valore.
Oggi siamo a questo: la produzione di valore avviene attraverso la finanziarizzazione del sistema e il governo delle aspettative. Aspettative ottimistiche sostengono lunghi cicli rialzistici nelle Borse, nei consumi di beni durevoli, nelle costruzioni e nei mutui immobiliari.
Nel frattempo la struttura reale dell'economia è stata modificata da due fenomeni del massimo rilievo, in qualche modo connessi tra loro: la nascita delle reti informatiche e la fine del fordismo e della fabbrica come pilastro centrale del sistema produttivo e della produzione di ricchezza.
Le modalità contrattuali nei rapporti di lavoro si sono frantumate in una polverizzazione d'accordi; il welfare gestito dallo Stato attraverso blocchi omogenei d'istituti previdenziali e assistenziali è venuto meno per ragioni demografiche, tecnologiche, finanziarie. Avanza il lavoro precario, entra in crisi il sindacato rappresentativo. La produzione di valore del nuovo capitalismo passa attraverso il recupero della massima flessibilità del lavoro, lo snellimento e la privatizzazione dei servizi sociali, la fine del fordismo salariale, reti di protezione magre di risorse, abbattimento della pressione fiscale per i redditi medi e medio-alti come elementi di favore elettorale e di sostegno della domanda.
Istituzionalmente questa fase del nuovo capitalismo comporterebbe la trasformazione del sindacato. Durante il periodo tra le due guerre ma soprattutto nel trentennio '50-'80 fu il sindacato, soprattutto nelle democrazie europee, a trasformare il capitalismo; adesso sta avvenendo esattamente il contrario: il sistema delle imprese ha bisogno di mano libera nella gestione della forza-lavoro, contratti individuali, contratti atipici, esternalizzazione del lavoro, precariato, affitto di lavoratori. Gestire un sistema del genere con un sindacato antagonista è molto difficile, perciò l'obiettivo diventa quello d'un sindacato neo-corporativo, gestore di funzioni para-pubbliche e di tutele compatibili.
Il modello opposto sarebbe quello di tutele parametrate sui bisogni, in qualche modo viste come variabili indipendenti, ma ciò metterebbe in crisi il modello neocorporativo. Le imprese sarebbero spinte a recuperare competitività puntando sulla ricerca e sull'innovazione anziché sullo sfruttamento della forza-lavoro.
Questi sono i due modelli che attualmente si fronteggiano in tutta Europa.
Non solo e non tanto due modelli politici ma due fisionomie diverse di capitalismo con diverso tasso di democraticità.
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Non era però stato previsto che questo scontro si verificasse nel corso di un ciclo economico di ristagno della domanda e d'estrema incertezza delle aspettative. Un ciclo - va aggiunto - che non accenna a invertire il suo trend nonostante i ripetuti annunci dei G7, G8 e altri luoghi istituzionali di qua e di là dell'Atlantico e del Mar del Giappone.
Ancora in questi giorni c'è stata una discesa netta nell'indice di fiducia degli operatori americani, i consumi hanno registrato una flessione, l'aumento del Pil, che era stato del 6 per cento nel primo trimestre dell'anno, è previsto rallentare al 2 per cento nel secondo. La fiammata dei primi tre mesi fu dovuta alle scorte di magazzino e alle spese militari successive all'11 settembre. Questi fatti si sono molto affievoliti nei mesi successivi, nuove spinte propulsive non si sono verificate.
Le conseguenze su Eurolandia sono sotto gli occhi di tutti. Bruxelles ha cercato d'attutirne gli effetti allentando i parametri del patto di stabilità, ma non ha molto spazio di manovra: se procedesse ancora su quella strada l'Unione economica si trasformerebbe inevitabilmente in un'area di libero scambio come in realtà è negli scopi in parte inconsci ma sempre più consapevoli dei governi di destra subentrati a quelli di sinistra.
Bisognerà guardar bene dentro all'europeismo della destra: essa vuole in realtà soltanto la fine d'ogni velleità federale e un deciso trasferimento di poteri al Consiglio dei ministri insieme a una devalorizzazione della Commissione e del Parlamento europei dal livello già insufficiente cui queste due istituzioni erano con tanta fatica arrivate.
Risorgono infatti spinte protezionistiche su entrambe le sponde dell'Atlantico, che influiranno sui modi di produzione di valore e soprattutto sulla sua distribuzione all'interno delle società opulente e nel resto del mondo.
Sembrava che la guerra contro il terrorismo - della quale non si vede la fine - avrebbe influenzato la distribuzione delle risorse in favore dei ceti deboli e dei paesi poveri. Sta accadendo invece l'esatto contrario, mentre diminuisce il grado di democraticità del sistema e aumenta il potere degli apparati.
Debbo ammettere che quest'analisi è piuttosto pessimistica ed è ovvio concludere che sarei ben lieto se la futura evoluzione dei fatti mi smentisse.