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Repubblica-La scuola di Milano e il negoziato tra le culture

La scuola di Milano e il negoziato tra le culture umberto eco Il principio fondamentale che regola ? o dovrebbe regolare - gli affari umani, se si vogliono evitare conflitti e incomprensioni, o...

13/07/2004
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la Repubblica

La scuola di Milano e il negoziato tra le culture

umberto eco
Il principio fondamentale che regola ? o dovrebbe regolare - gli affari umani, se si vogliono evitare conflitti e incomprensioni, o inutili utopie, è quello della Negoziazione. Il modello della negoziazione è quello del bazar orientale: il venditore chiede dieci, tu vorresti dare al massimo tre e tre proponi, e quello rilancia a nove, tu sali a quattro, quello scende a otto, tu ti spingi a offrire cinque e quello ribassa a sette. Finalmente ci si mette d'accordo su sei, tu hai l'impressione di avere vinto perché hai aumentato solo di tre e quello è sceso di quattro, ma il venditore è egualmente soddisfatto perché sapeva che la merce valeva cinque. Alla fine però, se tu eri interessato a quella merce e lui era interessato a venderla, siete abbastanza soddisfatti entrambi.
Il principio della negoziazione non governa solo l'economia di mercato, i conflitti sindacali e (quando le cose vanno bene) gli affari internazionali, ma è alla base stessa della vita culturale. Si ha negoziazione per una buona traduzione (traducendo perdi inevitabilmente qualcosa del testo originale, ma puoi elaborare soluzioni di recupero) e persino per il commercio che noi facciamo delle parole, nel senso che tu ed io possiamo assegnare a un certo termine significati difformi, ma se si deve arrivare a una comunicazione soddisfacente ci si mette d'accordo su un nucleo di significato comune sulla base del quale si può procedere ad intendersi. Per alcuni piove solo quando l'acqua scende a catinelle, per altri già quando si avvertono alcune goccioline sulla mano ma se, quando problema è se scendere alla spiaggia o meno, ci si può accordare su quel tanto di 'quot;piovere'quot; che fa la differenza tra andare o non andare al mare. Un principio di negoziazione vale anche per l'interpretazione di un testo (sia esso una poesia o un antico documento) perché, per tanto che ne se ne possa dire, davanti a noi abbiamo quel testo e non un altro, e anche un testo è un fatto. Così come non si può cambiare il fatto che oggi piova, non si può cambiare il fatto che I promessi sposi inizia col 'quot;quel ramo del lago di Como'quot;, e a scrivere (o intendere) Garda invece di Como si cambia romanzo. Se, come dicono alcuni, al mondo non ci fossero fatti ma solo interpretazioni, non si potrebbe negoziare, perché non ci sarebbe alcun criterio per decidere se la mia interpretazione è migliore della tua.
Si possono confrontare e discutere interpretazioni proprio perché le si mettono di fronte ai fatti che esse vogliono interpretare.
Raccontano le gazzette che un ecclesiastico disinformato mi avrebbe recentemente annoverato tra i Cattivi Maestri perché io sosterrei che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Non fa problema il Cattivo Maestro (luciferinamente vorrei esserlo ma, crescendo in età e sapienza, mi scopro vieppiù un Pessimo Alunno), ma è che in molti miei scritti ho sostenuto esattamente il contrario, e cioè che le nostre interpretazioni sbattono continuamente la testa contro lo zoccolo duro dei fatti, e i fatti (anche se spesso sono difficili da interpretare) sono lì, solidi e invasivi, a sfidare le interpretazioni insostenibili.
Mi rendo conto di avere fatto un giro troppo lungo per tornare al mio concetto di negoziazione, ma mi sembra fosse necessario farlo. Si negozia perché, se ciascuno si attenesse alla propria interpretazione dei fatti, si potrebbe discutere all'infinito. Si negozia per portare le nostre interpretazioni divergenti a un punto tale di convergenza, sia pure parziale, da potere insieme fare fronte a un Fatto, e cioè a qualcosa che è là e di cui è difficile sbarazzarsi.
Tutto questo discorso (che poi porta al principio che bisogna venire ragionevolmente a patti con l'inevitabile) nasce a proposito della decisione presa da un liceo milanese di istituire, su richiesta dei genitori immigrati, una classe di soli alunni musulmani. Il caso appare bizzarro perché ci vorrebbe poco, ad essere ragionevoli, a mettere metà alunni musulmani in una classe metà nell'altra, favorendo la loro integrazione coi loro compagni di altra cultura, e permettere a quei loro compagni di comprendere ed accettare ragazzi di una cultura diversa. Questo tutti vorremmo, se vivessimo nel migliore dei mondi possibili. E' tuttavia un Fatto che il mondo in cui non viviamo non è il migliore di quelli che potremmo desiderare, anche se per alcuni teologi medievali Dio stesso non poteva concepirne uno migliore, e quindi dovremmo accontentarci di questo.
Mi accade sempre di essere al cento per cento d'accordo su quanto scrive il mio amico Claudio Magris (via, per non compromettermi e non mettere lui nell'imbarazzo, diciamo al novantanove virgola novantanove) ma vorrei avanzare alcune obiezioni al suo articolo apparso ieri sul Corriere della Sera. Il suo ragionamento, in termini di Dover Essere, è impeccabile. Ricordando che la decisione è stata determinata dal fatto che i genitori dei ragazzi hanno posto in sostanza un aut aut, o si fa così o non li mandiamo a scuola, Magris commenta che 'laquo;questa richiesta di chiudersi in un ghetto, che avrebbe potuto essere avanzata da un razzista invasato da odio antimusulmano, è un'offesa a tutti, anche e in primo luogo all'Islam, che rischia così, ancora una volta, di essere identificato con le sue più basse degenerazioni?. Perché deve essere terribile, scandaloso, ripugnante per essi avere un compagno ? o compagna ? di banco cattolico, valdese, ebreo o né battezzato né circonciso?... Il pluralismo - sale della vita, della democrazia e della cultura ? non consiste in una serie di mondi chiusi in se stessi e ignari l'uno dell'altro, bensì nell'incontro, nel dialogo e nel confronto?'raquo;.
Sono naturalmente disposto a sottoscrivere queste osservazioni, tanto che da alcuni anni insieme ad altri amici e collaboratori mi sforzo di alimentare un sito Internet dove si danno consigli agli insegnanti di ogni razza e paese per portare i loro ragazzi alla mutua comprensione e accettazione della diversità (si può trovare il sito su Kataweb oppure presso l'Academie Universelle des Cultures) - e naturalmente per comprendersi e accettarsi a vicenda bisogna vivere insieme. Questo certamente dovrebbe essere fatto comprendere anche ai genitori che hanno preteso per i loro bambini l'autosegregazione ma, non conoscendo la situazione specifica, non so sino a che punto queste persone siano permeabili alle argomentazioni di Magris, che faccio mie.
L'unico punto su cui obietto a Magris è l'affermazione che questa richiesta fosse 'laquo;irricevibile'raquo; e che 'laquo;non avrebbe dovuta essere nemmeno presa in considerazione bensì lasciata cadere nel cestino'raquo;. Si può dare ascolto a una richiesta che in linea di principio offende le nostre convinzioni? Queste nostre convinzioni riguardano il Dover Essere (un essere che, siccome non è ancora, sta sempre al di là, e per questo suscita dibattito infinito e infinite interpretazioni). Ma il dibattito sul Dover Essere, nel caso in discussione, si scontra con un Fatto, che, come tutti i Fatti, non deve essere discusso. Di fronte a un fatto come un'eruzione vulcanica o una valanga non si pronunciano giudizi di merito, si cercano rimedi. Il fatto a cui siamo di fronte è che una comunità di genitori (a quanto pare egiziani) ha detto alla scuola 'laquo;o così, oppure i ragazzi non vengono'raquo;. Non so se l'alternativa sia mandarli a studiare in Egitto, non farli studiare affatto o fornire loro un'educazione esclusivamente musulmana in qualche forma privata. Escludendo la prima possibilità (che eventualmente potrebbe piacere alla Lega: ci sbarazziamo di questi mocciosi e li rimandiamo a casa - versione addolcita del 'quot;meglio ucciderli sino a che sono piccoli'quot;), la seconda sarebbe deprecabile perché sottrarrebbe a questi giovani immigrati il diritto a una educazione completa (sia pure per colpa dei genitori e non dello Stato). Rimane come ovvia la terza soluzione, che ha il triplice svantaggio di essere del tutto ghettizzante, di impedire a questi ragazzi di conoscere la cultura che li ospita, e probabilmente di incrementare un isolamento fondamentalista. Inoltre non si sta parlando di educazione elementare, per fornire la quale potrebbero anche mettersi insieme dei genitori volonterosi, ma di educazione liceale, e dunque di cosa un poco più complessa. A meno che non si istituiscano scuole coraniche equiparate alla scuola pubblica, cosa possibile visto che lo è per le scuole private cattoliche ma, almeno per me, non troppo auspicabile, se non altro perché rappresenterebbe un'altra forma di ghettizzazione.
Se i fatti sono questi e queste le alternative, allora si può comprendere la decisione della scuola milanese, risultato di una ragionevole negoziazione. Visto che a rispondere di no i ragazzi andrebbero altrove, o da nessuna parte, si accetta la richiesta, anche se in linea di principio non la si condivide, e si sceglie il minor male, sperando che si tratti di soluzione transitoria. I ragazzi rimarranno in classe soli tra loro (il che è una perdita anche per loro) ma in compenso riceveranno la stessa istruzione che riceve un ragazzo italiano, si potranno familiarizzare meglio con la nostra lingua e persino con la nostra storia. Siccome non sono degli infanti ma dei liceali, potrebbero ragionare con la loro testa e fare i dovuti confronti, e persino cercare autonomamente contatto coi loro coetanei italiani (o cinesi, o filippini). Nessuno ci ha ancora detto che la pensino esattamente come i loro genitori.
Inoltre, visto che si tratta di un liceo dove si studiano tante materie e tante dottrine, se gli insegnanti saranno bravi e delicati, gli studenti potranno apprendere che nel nostro paese ci sono certe credenze, certi costumi, certe opinioni condivise dai più, ma non sarebbe male anche consigliar loro di leggere alcune pagine del Corano, per esempio quelle in cui si dice 'laquo;Crediamo in Dio, e in ciò che ci ha rivelato, e in ciò che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle Tribù, e a quel che è stato detto a Mosé e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti del Signore: non facciamo nessuna differenza tra di loro?Quelli che praticano l'ebraismo, i cristiani, i sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel giorno ultimo e compie opera buona, avranno la loro ricompensa presso il Signore? Gareggiate dunque nelle buone opere. Tutti ritornerete a Dio, che allora v'informerà su ciò su cui divergete? E non disputate con le genti del Libro se non nel modo più cortese, eccetto con quelli di loro che agiscono ingiustamente, e dite: 'quot;Crediamo in ciò che è stato fatto scendere a noi e in ciò che è stato fatto scendere a voi: il vostro Dio e il nostro Dio sono uno'quot;'raquo;.
Come e cosa potranno pensare questi ragazzi dopo alcuni anni di vita, separata sì, ma pur sempre nel quadro della cultura ospite, non lo sappiamo, per l'ovvia ragione che l'avvenire è nel grembo di Allah. Ma probabilmente il risultato sarà più interessante che se fossero vissuti in una scuola privata e doppiamente ghettizzata.
Tutti aspiriamo al meglio ma abbiamo tutti imparato che talora il meglio è nemico del bene, e dunque negoziando si deve scegliere il meno peggio. E chissà quante di queste negoziazioni non si dovranno fare in futuro per evitare il sangue in una società multietnica. Accettare il meno peggio, sperando che non diventi costume, non esclude che ci si debba battere per realizzare il meglio anche se, come è ovvio, il meglio non essendo un fatto, bensì un fine, rimane oggetto di molte interpretazioni.


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