Repubblica-La riforma Moratti e l'università del merito
riforma Moratti e l'università del merito ALDO SCHIAVONE C'è il tempo della protesta, e q...
riforma Moratti e l'università del merito
ALDO SCHIAVONE
C'è il tempo della protesta, e quello della trattativa. Il vecchio adagio sindacale torna oggi più che mai opportuno. La disponibilità del ministro Moratti a riaprire il discorso su punti importanti del disegno di legge intorno allo stato giuridico dei docenti universitari, e la notizia dell'istituzione di un "tavolo tecnico" di confronto tra il ministro stesso e la Crui (Conferenza dei Rettori), non solo su questo testo, ma anche su altri delicati problemi all'ordine del giorno, come quelli della programmazione, della valutazione e dei finanziamenti degli Atenei, vanno accolte con favore. Come è un significativo e positivo segnale d'attenzione il recente intervento del Quirinale sulla copertura finanziaria del provvedimento in questione: che è l'autentico punto cruciale dell'intera materia.
La riforma del sistema universitario deve essere, fin dove possibile, terreno di collaborazione tra i soggetti istituzionali, e non di scontro; e un simile metodo dovrebbe valere anche per le forze politiche: nell'interesse del Paese, che sui temi della formazione e della ricerca impegna una parte decisiva del proprio futuro.
Questo naturalmente non significa che l'opposizione, e la sinistra in particolare, non debbano farsi portatrici di un loro progetto, d'una loro idea d'Università: anzi. Vuol dire però che non basta giocare di rimessa, cavalcando ogni contestazione, da quelle sacrosante a quelle francamente immotivate. E che bisogna invece mettere in campo una proposta, capace di rispondere a una filosofia generale, e chiamare a misurarsi su di essa, con duttilità, ma anche con rigore. Abbiamo avuto in passato una dannosa "sovraideologizzazione" dei discorsi e delle pratiche riguardanti l'Università, sulla base del (falso) postulato che ogni problema di riproduzione del sapere fosse interamente riducibile a un meccanismo classista. Nell'Italia degli Anni '60 e '70 c'erano forse buoni motivi per pensarlo. Ma ora quel tempo si è concluso. Ed è piuttosto il momento di mettere alla prova nuovi quadri concettuali, analisi differenziate, programmi a misura di soluzioni, per salvare e sviluppare un patrimonio che è l'unica vera salvaguardia della nostra identità nazionale.
L'Università che ci siamo dati negli ultimi trent'anni, l'università post-68, ha confusamente sovrapposto a un originario nocciolo elitario (esso sì, di classe) ma di altissima qualità in quasi tutti i suoi rami - dalla fisica alla storia, dalla biologia alla chimica - l'impianto di una nuova struttura, più democratica, aperta ai grandi numeri, ma con una spiccata vocazione "assistenziale" e alla sindacalizzazione delle relazioni accademiche(anche di quelle tra professori e studenti). Il motore dell'innovazione stava in una forte spinta garantista ed egualitaria: certezza d'inamovibilità per gli aspiranti docenti fin dal primo livello di carriera (quello di ricercatore); assoluta eguaglianza fra tutti i professori ordinari (passati in un trentennio da meno di mille a circa quindicimila); completo livellamento per gli studenti (diventati milioni, da poche decine di migliaia), schiacciati nella tenaglia d'un tacito scambio tra scarsità dei servizi, contenimento dei costi (tasse e quant'altro) e abbassamento nella soglia di difficoltà degli studi.
Gli effetti del cambiamento sono stati complessi, anche se non tutti negativi: ma la caotica convivenza fra la nuova università di massa, che guadagnava sempre più terreno, e la vecchia università d'élite che tuttavia continuava a sopravvivere in una rete di abitudini mentali e di nicchie istituzionali, stava finendo col produrre guasti insopportabili. La riforma varata dal ministro Zecchino ha cercato di sciogliere il nodo, districando l'uno dall'altro i due piani, e riconoscendo a ciascuno il suo spazio. Ormai quasi più nessuno nega che andasse nella giusta direzione, e il potente partito trasversale che l'aveva combattuta è quasi ridotto al silenzio. Ma il lavoro è appena iniziato.
Abbiamo bisogno di coraggio per completarlo, e di distruggere radicati luoghi comuni. E innanzitutto di formulare a voce alta un principio "scandaloso": in una università aperta e di massa, i professori non possono essere tutti eguali, e (soprattutto) non possono esserlo gli studenti. Dobbiamo saper passare dall'Università dell'assistenza e della cattiva eguaglianza, all'Università del merito e delle occasioni, e legare a questa trasformazione la richiesta di nuovi fondi. Nella formazione superiore, democrazia significa possibilità di accesso, non mancanza di selezione o rinuncia alla valutazione. Se l'Università pubblica non sarà capace di creare percorsi e curricula differenziati, di riconoscere e premiare l'eccellenza, e insieme di fermare la corsa al ribasso nella formazione di massa, invece di nasconderla sotto le spoglie di un egualitarismo senza prospettive ? che è solo un colossale inganno - essa avrà i giorni contati.
Il sistema universitario italiano è ricco di straordinarie risorse e grandi potenzialità. Sbaglia chi crede ? come si sente ripetere, anche dal presidente del Consiglio ? che per realizzare progetti davvero importanti è meglio rimanere al di fuori di essi, e partire da zero, come si sta cercando di fare per l'Istituto di Tecnologia che si vuol costruire a Genova. Può darsi che questa strada darà i suoi frutti. Ma occorre prudenza, e non si può ignorare che in altri casi, come quello dell'Istituto Italiano di Scienze Umane, si sta seguendo una direzione diversa, e (per ora) con qualche successo.
È con queste scelte strategiche che la sinistra dovrà misurarsi. L'Università ha bisogno di darsi una nuova cultura di sé. Aiutiamola a conquistarla.