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Repubblica-La nostra ricerca, povera e bella

Oggi vendita di arance in 2500 piazze d'Italia per finanziare la lotta contro il cancro La nostra ricerca, povera e bella UMBERTO VERONESI Oggi, in 2500 piazze, gli italiani troveranno le orma...

29/01/2005
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la Repubblica

Oggi vendita di arance in 2500 piazze d'Italia per finanziare la lotta contro il cancro
La nostra ricerca, povera e bella
UMBERTO VERONESI
Oggi, in 2500 piazze, gli italiani troveranno le ormai tradizionali Arance della Salute dell'Airc, per sostenere la ricerca contro il cancro. Sono sicuro che in tanti parteciperanno all'iniziativa, malgrado il freddo e soprattutto malgrado i luoghi comuni sulla ricerca italiana. Perché ce ne sono almeno tre e molto pesanti. Il primo è che l'Italia è la Cenerentola della ricerca. Lo è se consideriamo gli investimenti. È di luglio scorso l'articolo apparso su "Nature" (una fra le più autorevoli riviste scientifiche internazionali) sulla classifica mondiale della ricerca.
Ci segnalava dolorosamente che nel nostro Paese gli investimenti in ricerca sono diminuiti di cinque volte negli ultimi dieci anni, trascinando l'Italia all'ultimo posto fra i paesi del G 8, la stessa posizione della Polonia. Dedichiamo lo 0,53% del nostro Pil alla ricerca, contro il 2,12 del Giappone e l'1,97 degli Stati Uniti. Ma se consideriamo la qualità dei risultati la situazione si ribalta. Malgrado le pochissime risorse, riporta ancora l'indagine, l'Italia figura fra le otto nazioni al mondo che producono l'85% dei risultati di "alta qualità". È un paradosso che ci fa onore.
Nella biomedicina la produttività dei nostri ricercatori e dei nostri centri è un dato confermato dai parametri "tecnici" mondiali. Mi riferisco in particolare all'Impact Factor, un punteggio attribuito a ogni ricerca sulla base di quante volte nel mondo scientifico è citata la rivista che l'ha pubblicata, che è quindi l'espressione oggettiva di quanto incide la ricerca stessa sul progresso della scienza. Ebbene, l'impact factor totale della ricerca biomedica italiana è aumentata del 30% negli ultimi 3 anni (2000-2003) raggiungendo un valore annuale che ci fa schizzare fra i primi paesi al mondo. Se poi ci focalizziamo sulla ricerca oncologica i dati sono almeno altrettanto incoraggianti. È di pochi giorni la notizia che solo nel primo mese di quest'anno sono stati pubblicati quattro studi importantissimi, finanziati da Airc. Due di questi in particolare, effettuate all'Università di Napoli e all'Istituto Europeo di Oncologia, rappresentano un progresso storico per la cura delle leucemie con farmaci biomolecolari, i cosiddetti farmaci intelligenti.
L'eccellenza del lavoro dei ricercatori italiani è dunque indiscutibile. E qui veniamo al secondo luogo comune: la fuga dei cervelli. Lo spettro delle intelligenze che abbandonano il nostro Paese ha instillato il dubbio in molti, soprattutto malati e loro familiari, e ha creato un senso di sfiducia nella ricerca italiana. Anche qui bisogna fare un distinguo. Innanzitutto dobbiamo ripetere che i cervelli in Italia ci sono e producono risultati anche in condizioni di lavoro incerte e in regime di risorse limitate. È vero che molti scelgono di lavorare all'estero, soprattutto negli Stati Uniti, dove il ricercatore ha più incentivi personali e maggiori possibilità di carriera. È vero anche che manca nel nostro paese un Disegno Strategico per la Ricerca, come tutti, politici ed economisti compresi, riconoscono. Ma non per questo la ricerca si ferma. Ricevo quasi ogni giorno lettere di giovani italiani che dichiarano la passione della ricerca e insieme la loro delusione nel non trovare un terreno favorevole a realizzarla qui, dove sono nati ed hanno studiato. Non ho ricette sicure per la loro vita, ma mi sento di affermare che oggi, e soprattutto domani, saranno le idee, la passione delle nuove generazioni a spingersi oltre e ad esplorare le nuove frontiere della scienza a fare la vera differenza fra un Paese e l'altro. Le idee in Italia ci sono e non dobbiamo escludere che la loro forza non smuova il sistema del Paese più rapidamente di quanto oggi immaginiamo. Bisogna continuare a comunicare, fare pressione, lottare.
Il terzo luogo comune è strettamente legato al precedente. Lo possiamo definire "l'esterofilia della ricerca" e riguarda la paura che in Italia non siano accessibili le terapie sperimentali più innovative che ci si aspetta di trovare in Paesi più orientati alla ricerca. Questo è un mito da sfatare per due ragioni: primo la ricerca ha confini mondiali e non territoriali e secondo l'Italia è, in oncologia sicuramente, la culla e il motore di grandi innovazioni che hanno rivoluzionato il modo di curare il cancro.
È tempo di superare i luoghi comuni, e soprattutto il disfattismo che li accompagna, per affrontare una visione chiara della realtà. Grazie ai grandi sforzi individuali, e al contributo della gente, miracolosamente la bilancia dei risultati pende oggi a favore della ricerca. Ma l'equilibrio è instabile e non si mantiene da solo, all'infinito. È necessario aiutare la ricerca scientifica con una politica più determinata e decisamente orientata allo sviluppo. In fondo basterebbero, per cominciare, misure semplici come le detrazioni fiscali per chi dona o investe in ricerca. Bisogna innanzitutto prendere coscienza che il nostro Paese si trova in una situazione di rischio, tanto più in un clima culturale in cui il pensiero scientifico è visto con sospetto, se non con timore, e in cui serpeggia, più o meno subdolamente, un movimento anti scientifico che potrebbe oscurare il nostro futuro.


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