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Repubblica-L'azienda che vuole il ministro Moratti -di Mario Pirani

L'azienda che vuole il ministro Moratti MARIO PIRANI Forse il disastro è cominciato con l'avvento del nefasto neologismo, "azienda Italia", che ha giustificato l'empia confusione tra ...

18/12/2001
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la Repubblica

L'azienda che vuole il ministro Moratti
MARIO PIRANI

Forse il disastro è cominciato con l'avvento del nefasto neologismo, "azienda Italia", che ha giustificato l'empia confusione tra i complessi e anche contraddittori interessi di una nazione e la incongrua pretesa di quantificarli tutti col metro dei bilanci d'impresa. Col che non si vuol certo diminuire l'importanza decisiva dei fattori economici, quanto riflettere su quei diritti inalienabili, quali la salute, l'istruzione, la giustizia, l'ambiente ed altri che il mercato non può di per sé automaticamente garantire. Va, peraltro, anche tenuto presente come la visione "economicisticomanageriale" si accompagni a una filosofia che tende ad avvalorarla in nome della superiore efficienza che il privato assicurerebbe sempre sul pubblico.
Questa cultura del privato (che, sia chiaro, condividiamo in tutti quegli amplissimi settori in cui il mercato funziona da regolatore ottimale) ha però finito via via per imporsi anche laddove il mercato lasciato a se stesso produce profonde ingiustizie, devastazioni ecologiche ed altri negativi effetti. Così al giorno d'oggi non vi è discorso sulla sanità o sulla scuola che non sia dominato dall'imperativo di tagliare i bilanci, di affidare ai privati la maggior quota possibile di attività, di spogliare lo Stato di competenze fondamentali per devolverle alle Regioni, con conseguente frantumazione dell'eguaglianza dei diritti di cittadinanza degli italiani, fra zone povere e zone ricche.
Volendo oggi parlare di scuola abbiamo considerato necessaria questa premessa, senza la quale, del resto, non si capirebbe il motivo del permanente scontento che, dopo la stagione delle polemiche che vide ieri insegnanti e studenti, irritati e delusi dal centro sinistra, polemizzare con le riforme di Berlinguer e De Mauro, li riporta oggi a battersi contro gli annunciati proponimenti di Letizia Moratti. Con vocazione, purtroppo, più allo scontro, assolutamente inutile e dannoso, che all'incontro se, come si annuncia, agli Stati generali della scuola, spostati dal ministro in extremis da Foligno a Roma, si presenteranno alcune diecine di migliaia di manifestanti, compresi gli assolutamente pleonastici noglobal, mobilitati dall'instancabile Casarini
Incombe la privatizzazione e con essa un modo errato di concepire l'uso delle risorse a cominciare dagli insegnanti
Il progetto del ministro della Pubblica Istruzione è di cambiare radicalmente l'insegnamento in Italia. Con quali esiti?
Si parla di logica manageriale, in realtà si favoriscono alcuni potentati
Gli aspetti negativi della proposta superano di gran lunga quelli positivi
Le manifestazioni in corso mostrano che è in gioco il futuro dell'istruzione Sbaglierebbe, però, chi leggesse le manifestazioni di questi giorni come la pedissequa ripetizione delle ricorrenti "occupazioni" e "autogestioni", più o meno festaiole a cui siamo stancamente abituati. No, oggi è in gioco e gli attori se ne mostrano consapevoli la difesa e il futuro dell'istruzione pubblica, nella sua essenzialità di grande servizio assicurato dallo Stato per dare a tutti i giovani non la semplice alfabetizzazione, ma i fondamenti di una cultura di base di tipo generale.
Questa scuola, in un paese differenziato come l'Italia, la cui unità conta poco più di un secolo di vita, con dialetti, a volte, reciprocamente inintelligibili, ha avuto anche il compito di trasmettere una lingua, una storia, una cultura, valori civili e morali che contribuissero all'unificazione reale della Nazione. Alle fasce successive dell'insegnamento secondario, professionale e universitario, spettava, inoltre, fino a qualche decennio orsono, la formazione delle classi dirigenti e del personale operaio e artigiano qualificato.
Con l'avvento della scolarizzazione secondaria di massa il ruolo formativo e selettivo delle élites è venuto a mancare e le competenze richieste sempre più affievolendo. La rivoluzione informatica e tecnologica ha suggerito nuovi approcci disciplinari. "La nuova scuola", scrive uno dei più intelligenti studiosi del fenomeno, il prof. Lucio Russo, "deve preparare soprattutto consumatori, oltre che contribuenti ed elettori. Queste figure... possono fare a meno di qualunque tipo di cultura generale... Una tale scuola dovrà fornire educazione stradale, sanitaria, sessuale, alimentare, fiscale e così via... dovrà insegnare a leggere una bolletta e un estratto conto e a rispondere ai questionari delle inchieste, ma non dovrà richiedere sforzi intellettuali considerati faticosi, superflui e, forse, pericolosi.... I nuovi fini della scuola possono essere conseguiti solo mediante una profonda trasformazione dei contenuti e dei metodi didattici. Gli strumenti concettuali teorici, considerati ormai troppo difficili, sono eliminati dall'insegnamento, che viene ridotto alla descrizione di meri "fatti" e a elenchi di prescrizioni... Alla nuova scuola non occorrono esperti di fisica, letteratura, filosofia o storia dell'arte. Una volta completata la trasformazione, basteranno dei generici "operatori scolastici", con preparazione essenzialmente sociopedagogica, che svolgano la funzione di intrattenitori e animatori, accogliendo gli studenti nelle strutture scolastiche, stimolandone la socializzazione e accompagnandoli e guidandoli nella fruizione dei media... Non è necessario dire che selezionare gli studenti della nuova scuola non avrebbe più senso che selezionare i clienti di un supermercato..... E come nel caso del supermercato l'unica selezione ammissibile è quella che elimina i taccheggiatori, analogamente... per ottenere un titolo di studio basta l'assenza di gravi colpe o la presenza di circostanze attenuanti. Così la nuova scuola si presenta come totalmente democratica, in quanto sottraendo ogni residua autorità agli insegnanti, si configura come una struttura a immediata e totale disposizione dello studentecliente... Presidi e insegnanti vengono invitati a escogitare iniziative promozionali che migliorino "l'immagine" della propria scuola, attirando un maggior numero di studenticlienti. La concorrenza tra scuole... viene assorbita passivamente dal mondo del marketing e si cerca, in particolare, di trasformare la professionalità dei presidi modellandola su quella dei dirigenti degli uffici vendite e dei tecnici pubblicitari" (da Segmenti e bastoncini, ed. Feltrinelli). Questa è la base della cosiddetta autonomia.
Le riforme del centro sinistra si articolarono attorno a questo schema e come tali vennero più volte criticate e respinte dalla maggioranza degli insegnanti. Il nostro giornale, per bocca del sottoscritto, se ne fece ripetutamente eco. L'ambizione di Berlinguer si reggeva, peraltro, sul generoso principio, da una lato, di portare tutti, senza filtri eccessivamente selettivi, all'Università, rendendo anche quest'ultima maggiormente fruibile, tramite le lauree brevi di tre anni, ma, dall'altro, di qualificare, almeno per la durata, la scuola secondaria, prolungando l'obbligo scolastico fino al primo biennio delle superiori (15 anni). Le maggiori contestazioni nacquero, però, dall'unificazione del ciclo delle elementari con la media inferiore, anche se favoriva il tempo pieno nella prima fase e l'insegnamento precoce di una lingua straniera. Fermo restava, peraltro, il primato della scuola pubblica, anche se l'aziendalismo didattico ne ledeva i principi fondativi.
Le proposte peraltro non definitive della Moratti si muovono nello stesso ambito concettuale, delineato da Russo. Del resto, in questa luce, lo slogan di Berlusconi , detto delle tre I (Inglese, Internet, Impresa), appare assai più impegnativo quasi un icastico programma di una parola d'ordine elettorale. Così anche la cancellazione dell'aggettivo "pubblica", dalla denominazione storica del ministero dell'Istruzione, suona come una dichiarazione d'intenti ideologica, quale neppure il più illustre e credente dei ministri di osservanza cattolica, Guido Gonella, avrebbe osato immaginare.
Gli indirizzi scolastici del centro destra vanno ben oltre, sia nell'aprire nuovi spazi alla privatizzazione dell'insegnamento, in particolare quello cattolico, sia nell'accentuare l'aziendalizzazione degli istituti, sia, infine, nel dequalificare in maniera drastica l'istruzione pubblica. Prima di entrare nel merito sento, però, l'obbligo di elencare alcuni punti che mi sembrano positivi, in primo luogo quello di ripristinare non tanto il 7 in condotta elemento dissuasivo di natura più simbolica che effettiva quanto un legame tra profitto e comportamento, la cui separazione, da quando è stata irresponsabilmente introdotta, ha incentivato atteggiamenti sempre più provocatori e incivili da parte di minoranze violente e tanto più aggressive, quanto rese sicure dall'immunità. In secondo luogo la fissazione di verifiche biennali, che contemplino la bocciatura e non il ridicolo conteggio dei debiti formativi e degli illusori sei rossi, potrebbe riportare, se mantenuta, a un minimo di selettività e di serietà negli studi. In terzo luogo l'aspirazione a riqualificare la formazione professionale, pur se accompagnata da misure apertamente contraddittorie e sbagliate, non è in sé biasimevole in nome dei vecchi stereotipi di una sinistra che l'ha sempre aborrita, considerandola un ghetto in cui rinserrare i figli della classe operaia.
Le premesse negative superano, però, di gran lunga quelle positive.
Confondendo l'obbligo formativo con l'obbligo scolastico, gli esperti della Moratti propongono di riportare quest'ultimo alla terza media. In tal modo l'avviamento professionale per coloro che lo scegliessero, non avverrebbe a 15 anni, dopo aver assimilato almeno un livello decente di cultura generale, di capacità di lettura, di rudimenti di lingua straniera, con una più precisa determinazione delle proprie aspirazioni, ma a 13 anni, del tutto sprovveduti e semiignoranti. Allo stato delle cose, poi, non finirebbero certo nei qualificati corsi professionali, ancora allo stato virtuale, ma in quelle vecchie scuolette di mestiere (per muratori, parrucchieri, meccanici, tappezzieri, addetti al computer , ecc.) in gran parte organizzate da privati ed ecclesiastici, soprattutto salesiani, e garantite da sovvenzioni pubbliche, non di rado di discutibile impiego e utilità. Si è trattato anche nel passato di un ben protetto orto corporativo, caro alla Dc che, per questo, ha sempre promesso ma mai attuato, l'impegno ad elevare l'obbligo scolastico a 15 anni. Ora, per iniziativa di Forza Italia, si tornerebbe a coltivare quella paludosa clientela, fonte di spreco pseudo formativo.
L'altro disastro in prospettiva consiste nell'accorciamento di un anno della scuola secondaria superiore: i licei e gli istituti tecnici superiori passerebbero da 4 a 5. Dai primi scomparirebbe la matematica, dai licei scientifici il latino. Quel poco che resta di cultura classica nel nostro paese finirebbe rapidamente nell'inceneritore di questa contro riforma. Il motivo sta nel principio di adeguamento alla pratica vigente in quasi tutta Europa che fissa il conseguimento del diploma a 18 anni. Berlinguer, suscitando non poche e, a pare mio, anche giustificate proteste, aveva aggirato l'ostacolo unificando i cinque anni delle elementari e i tre delle medie inferiori in un unico ciclo di 7 anni. Moratti torna al vecchio schema e taglia, invece, alle superiori. E' bene si sappia che dietro queste perverse soluzioni aritmetiche per risparmiare un anno, vi è un problema politico.
Chiunque studi le caratteristiche evolutive dell'età infantile, esaminandole in concreto nelle scuole materne, sa benissimo che il bambino di 5 anni del giorno d'oggi, fruitore di massmedia e di letture precoci, non è certo al livello culturale di un bambino dell'inizio del secolo scorso che in prima, a sei anni, si confrontava con le aste e ricopiava le lettere dell'alfabeto. Nel 2000, invece, non vi sarebbe alcun ostacolo cognitivo ad iniziare la scuola dell'obbligo a 5 anni piuttosto che a 6. In questo modo si arriverebbe al diploma a 18 senza penalizzare ancor più gli studi. Berlinguer ci aveva provato, ma fu subito dissuaso. La Moratti non ci prova neppure. I potenti "dissuasori" sono le monache che detengono il 60% delle scuole materne, sorrette dal pedagogismo ecclesiastico che si è scagliato contro i demoni modernisti che vorrebbero strappare gli infanti dalle cure affettuose di suore e maestrine. I partiti residuali della Dc, equamente spartiti tra destra e sinistra, si fanno eco di queste lacrimevoli preoccupazioni. In nome di una autentica idiozia, ancorché eticamente e politicamente nobilitata, si stanno così sfasciando i cicli della scuola italiana.
Ed hanno l'ardire di chiamare tutto questo managerialità e modernizzazione, tanto che per rendere il tutto più credibile (e aberrante) le scuole verranno dirette da consigli di amministrazione, dove gli insegnanti conteranno poco o nulla, ma "esperti" e dirigenti gestiranno i fondi, cercheranno gli sponsor esterni e devolveranno quante più attività possibili al di fuori della scuola. Per quel che riguarda l'auspicato ritorno delle elementari, la soddisfazione è subito frustrata dalla preannunciata abolizione del tempo pieno, di cui usufruiscono già più di 500.000 bambini, figli in genere di genitori che lavorano e non hanno i soldi per la babysetter. E' stato aggiunto che chi vuole il tempo pieno potrà averlo pagando di tasca propria lo straordinario per le maestre. Uno dei tanti esempi di privatizzazione all'italiana.
Naturalmente, essendo Letizia Moratti una manager di tutto rispetto, le sue motivazioni sono anzitutto economiche. Giustamente lamenta che i circa 62.000 miliardi che lo Stato spende per la scuola siano assorbiti per il 93% da costi fissi e, cioè, per il personale e che vorrebbe nei prossimi anni portare il rapporto all'80%, per poter stanziare almeno 15.000 miliardi in investimenti strutturali e tecnologici. Ottimo proposito. Omette, però, di ricordare che nello stesso periodo andranno in pensione dai 120 ai 150.000 insegnanti , il cui costo passerà al Tesoro, più o meno per l'analoga somma.
Non ci si aspetti, comunque, che vengano sostituiti con nuove leve. Se la Fiat taglia aziende e produzioni, perché la scuola non deve adeguarsi? Così, se fino ad oggi, uno studente, dalla prima elementare alla maturità, frequenta le aule per 12.700 ore, nell'era prossima ventura il suo sforzo, tra fine del tempo pieno, abolizione della quinta media, devoluzioni all'esterno, calerà del 22% , fino a sommare solo a 9900 ore complessive. Naturalmente con meno insegnanti. I ragazzi saranno più felici, anche se un po' più ignoranti.
Sempre che sia possibile.


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