Repubblica-Jeremy Rifkin "Ecco come è morto il sogno americano"
Stati uniti ed europa. Intervista all'economista Jeremy Rifkin "Ecco come è morto il sogno americano" Individualismo e solidarismo. Quantità e qualità. Arriva in Italia il nuovo libro ...
Stati uniti ed europa. Intervista all'economista
Jeremy Rifkin "Ecco come è morto il sogno americano"
Individualismo e solidarismo. Quantità e qualità. Arriva in Italia il nuovo libro dello studioso
RICCARDO STAGLIANÒ
Jeremy Rifkin ha un occhio particolare per le crepe. Le vede per tempo e, a forza di guardarle e studiarle comunica l'idea che il corpo in cui si sono prodotte stia per schiantarsi da un momento all'altro. E poiché si occupa solo di massimi sistemi (La fine del lavoro inteso come posto fisso, Il secolo biotech sulla commercializzazione della natura, L'era dell'accesso ovvero del passaggio dalla proprietà ai servizi, per citarne alcuni) le sue diagnosi talvolta fanno paura e sempre fanno discutere. C'è chi lo accusa di essere un campione di "endism", la tendenza lucrosa a preconizzare la fine di qualcosa. Ma lui non se ne cura: i suoi libri sono documentati, si fanno leggere con gusto e vendono come il pane in tutto il mondo. Il sogno europeo, appena uscito da Mondadori, non fa eccezione.
Professore, l'american dream non la convince più?
"L'idea che chiunque, a patto che lavori sodo, possa avere tutto il successo che vuole è ancora vera, ma è una visione angusta, troppo individualista, che porta a una società sempre più iniqua. C'è bisogno di un approccio più solidaristico, che tenga conto del benessere della comunità piuttosto che di quello dei singoli. E che non lo calcoli solo in termini materiali ma anche di qualità della vita. Il modello europeo, insomma".
Lei ci imputa tante buone qualità...
"Relazioni comunitarie contro autonomia individuale, multiculturalismo contro assimilazione, qualità della vita contro accumulazione di ricchezza, sviluppo sostenibile contro crescita illimitata, cooperazione globale contro uso unilaterale del potere, per ricordare le principali".
E ci invita ad abbandonare il complesso di inferiorità nei vostri confronti...
"Non ha ragione di essere. Per molti versi, anche pratici, siete già avanti a noi: il vostro pil complessivo è di 10,5 trilioni di dollari contro i nostri 10,4, avete 4 settimane di ferie invece di 2, l'assistenza sanitaria gratuita, un tasso di omicidi 4 volte inferiore al nostro. Mentre tra i nostri record meno lusinghieri c'è un quarto dei carcerati di tutto il mondo e il ventisettesimo posto nella classifica della mortalità infantile: incredibile, no?".
È un'America meno nota quella che descrive.
"La nostra è un'economia patologicamente basata sul debito. Con il sistema delle carte di credito la gente spende i soldi che non ha, e va in bancarotta. Non sono consumi che producono posti di lavoro. L'università di Chicago parla di un tasso di disoccupazione del 9 per cento: solo nel 1929 era così alto. La Grande depressione, appunto".
Eppure, in vari aspetti, l'Europa cerca sempre più di assomigliarvi. Perché?
"Se parla del lavoro, della riduzione delle tutele sindacali e del welfare ha ragione. A molti euroscettici piace ripetere che per sopravvivere in questo mondo globalizzato bisogna rinunciare ai vecchi privilegi. Ma vi pare sensato seguire un modello così inferiore, da molti punti di vista, rispetto al vostro?".
Tuttavia scrive che, per avverarsi, il sogno europeo deve imparare da quello americano: cosa?
"Intanto la responsabilità personale: noi non diamo mai la colpa a qualcun altro per le nostre sventure. Non avendo una rete sociale di sostegno (spendiamo l'11 per cento per il welfare, contro il vostro 26), siamo da sempre abituati a badare a noi stessi. Non si può dire lo stesso di voi. Poi l'ottimismo, l'attitudine a prendere rischi. I nostri ragazzi sono molto meno timorosi del domani di quanto lo siano i vostri. E lo stesso vale per gli adulti".
Per questo dedica il libro agli studenti Erasmus?
"Loro incarnano il futuro dell'Europa: parlano le lingue, viaggiano e sono aperti al cambiamento. Sono in grado di trasformare il sogno in realtà. Pensi se, aggiornando l'idea dei "peace corps" americani, vi inventaste dei "welcome corps". Ragazzi che, finito il liceo, facciano un anno di servizio civile nei "corpi di benvenuto", diventino facilitatori di integrazione insegnando lingua e cultura locale agli immigrati. Non sarebbe una gran cosa?".