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Repubblica: Intervista a Salvatore Settis, eletto per la terza volta direttore della Scuola pisana

Intervista a Salvatore Settis, eletto per la terza volta direttore della Scuola pisana

30/06/2007
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la Repubblica

Non basta creare isole di alta qualità negli studi È importante che l´intero sistema universitario riprenda a funzionare per il bene di tutti
"È necessario fissare requisiti minimi per l´eccellenza Mussi s´è detto d´accordo"
"Negli ultimi anni è cresciuto il numero di normalisti in cerca di lavoro all´estero"

PISA

Una scuola d´eccellenza al servizio d´un paese che non se la merita. È in fondo questo il paradosso della Normale, vista da Palazzo della Carovana insieme a Salvatore Settis, riconfermato per la terza volta alla guida della Scuola. La sua recente rielezione non è stata priva di contrasti, sintomo anche di smarrimento e incertezza intorno al destino di questa fabbrica di premi Nobel - e presidenti della Repubblica e del Consiglio - in un´Italia in crisi d´identità. Fucina di cervelli sì, ma per la gran parte destinati all´estero. «L´Italia non fa molto per meritarsela», conviene Settis nell´austera cornice del Gran Priore, un tempo appartamento del direttore, oggi sala studio o di rappresentanza. Lui la Normale la frequenta con qualche parentesi da quasi mezzo secolo. Prima da studente, sul finire dei Cinquanta, quando le matricole venivano fatte arrampicare dai più anziani in cima agli armadi e da lì dovevano rispondere a domande complicatissime su storia, religione ed anche sesso. Più tardi da insegnante di Storia dell´arte e dell´archeologia classica, con libere frequentazioni dall´età greco-romana al Rinascimento. Infine nel 1999 da direttore, dopo un lungo soggiorno a Los Angeles alla guida del Getty Reasearch Institute. Di piazza dei Cavalieri conosce le più varie liturgie, feroci agonismi, inattese alchimie, talvolta vendette postume. Come quella di Luigi Russo, destituito da direttore dall´allora ministro Guido Gonella: lo studioso rispose pubblicando su Belfagor un saggio su un buffone di corte del Quattrocento, Gonella Buffone. Da risentimenti verso i suoi avversari oggi Settis appare completamente libero, intento al contrario a un paziente lavoro di ricucitura. E sulle segrete complicità tra normalisti racconta in via confidenziale di quando il neoeletto presidente Ciampi lo mandò a chiamare. «Ero stato appena nominato direttore e naturalmente accorsi al Quirinale con piglio fiero. Prima la sfilata di corazzieri, poi il corteo di addetti e funzionari. Arrivato finalmente al cospetto del Presidente, fu lui a rivolgermi la fatidica domanda: "Ma lei in che stanza alloggiava?". Scoprimmo che in stagioni diverse avevamo abitato nello stesso corridoio, a due camere di distanza. Ci si spalancò dinanzi un mondo».
Professor Settis, in un paese non più eccellente come si difende la qualità d´una scuola d´eccellenza?
«Scuola d´eminenza, prego. È solo una battuta, ma questa dell´eccellenza è diventata una formula inflazionata. Quante scuole d´eccellenza sono nate negli ultimi cinque anni in Italia? Spuntano come funghi, talvolta a distanza ravvicinata l´una dall´altra. Senza alcun controllo e senza guida».
Vuole che la Normale rimanga unica?
«No, tutt´altro. Condivido quel che Edoardo Vesentini scriveva già negli anni Ottanta, invocando Una, dieci, venti Normali. Una sola Scuola non basta, ne occorrono altre. Ma il processo deve essere governato con un provvedimento di sistema. In Francia esiste una rete di Grandi Scuole germinate dall´École Normale per decisione centrale. Da noi invece sono proliferate una ventina di scuole d´eccellenza senza nessun accordo con il ministero».
Ne ha parlato con l´ex normalista Fabio Mussi?
«Sì, mi ha anche chiesto di scrivergli un promemoria con alcune proposte. È necessario fissare dei requisiti minimi per queste scuole. L´eccellenza non dovrebbe essere una definizione a priori ma un riconoscimento a posteriori. Il rischio è che i ragazzi socialmente meno attrezzati non sappiano distinguere tra scuole buone e cattive».
Cos´altro non la convince?
«Non mi piace la tendenza ad avallare un sistema universitario sbilanciato. Con un vertice privilegiato rappresentato dalle scuole d´eccellenza e una base mediocre che è l´università del "tre più due". Al fondo c´è un equivoco: si pensa che l´università si possa salvare preservando le punte d´eccellenza. Ma non è così: se l´intero sistema va alla deriva - con l´eccezione dello 0,1 per cento - ne risentirà anche l´isola d´eccellenza. E soprattutto non facciamo il bene del paese».
Anche lei ritiene che la formula del tre più due non sia convincente?
«Sono pienamente d´accordo con l´ex normalista Pietro Citati, che su Repubblica ne ha denunciato la fragilità. Credo avesse ragione il primo Luigi Berlinguer che pensava di attuare la riforma in modo sperimentale e in un numero selezionato di facoltà. Ha avuto torto il Berlinguer seconda maniera che ha voluto imporla in tempi velocissimi all´intera università».
Con quali conseguenze?
«Purtroppo il triennio corrisponde troppo spesso alla preesistente laurea quadriennale, però impoverita e mutilata di contenuti. In sostanza ha prevalso la retorica italiana del pezzo di carta, non sostenuto da una reale preparazione. L´altro giorno il ministro Rutelli ha annunciato nuovi concorsi per i Beni Culturali. Ottimo. Ma per diventare sovrintendente basta la laurea triennale: pensi in quali mani potranno cadere le soprintendenze!».
Come si difende la qualità della Normale?
«La selezione per l´ammissione è molto dura, e ogni anno ci adoperiamo perché il numero dei concorrenti sia sempre più alto. Campagne pubblicitarie come quella firmata da Oliviero Toscani hanno sostituito il vecchio bando di concorso. Complessivamente tra Lettere e Scienze, mettiamo a disposizione ogni anno tra i cinquanta e sessanta posti, con un numero di concorrenti intorno a 700. Il rapporto tra ammessi e non ammessi è grosso modo di uno a dodici, lo stesso che c´è ad Harvard».
Cosa fate, li torchiate?
«No, affatto. In molti pensano che la prova di ammissione sia un secondo esame di maturità, naturalmente più difficile. Non è così. Quel che si vuole verificare non è lo stato delle conoscenze, che si danno per acquisite, ma la capacità di collegarle criticamente tra loro. Il voto conseguito alla maturità è irrilevante. Per fortuna, aggiungo. Io come tanti altri non sarei stato ammesso».
Lei non ebbe il massimo alla maturità?
«No, ci fu un infortunio. Ma l´ingresso alla Normale non ne risentì. Il professore di greco mi sottopose una versione di Tucidide, rassicurandomi che non era necessario sapere tutte le parole. Però mi chiese della democrazia ateniese e della guerra del Peloponneso. Andò bene».
Una volta superata la prova, bisogna studiare il doppio.
«Sì, il normalista è tenuto a iscriversi parallelamente all´Università di Pisa ed è lì che si laurea - voti non inferiori al 24, mai fuori corso e con media minima del 27 - e intanto ha esperienze di studio e di ricerca all´interno della Scuola. Questo duplice curriculum abitua gli studenti a una particolare intensità di lavoro. Poi c´è l´ambiente competitivo della Normale, una particolarissima miscela di allievi, professori e dottorandi, che travalica i ruoli ufficiali».
Qual è la composizione sociale dei normalisti?
«Non abbiamo mai fatto indagini. Qui c´è di tutto, grandi famiglie di tradizione intellettuale, ma anche piccola borghesia e ceto contadino. È la peculiarità di questa Scuola, fondata esclusivamente sul merito, non sul censo. Da sempre è così. Nei primi anni Sessanta io provenivo da una famiglia della media borghesia calabrese - mio padre era segretario comunale, mia madre aveva studiato alle magistrali - e strinsi un´amicizia profonda con Carlo Ginzburg, figlio dell´aristocrazia intellettuale. La Normale è davvero una scuola d´élite su base egualitaria».
Ascoltandola viene da pensare che siamo in un altro paese. Però, professore, mi è naturale un´obiezione. La sua elezione recente - prima contrastata, poi felicemente risolta - ha lasciato trasparire rivalità baronali, pulsioni nepotistiche, un fruscio di serpi accademico che rende la Normale in questo sì molto normale, simile alle altre università.
«Questi fruscii di serpi sono del tutto secondari. Dietro la vicenda della candidatura non ci sono antagonismi personali, ma questioni serie come il rapporto tra ricerca e didattica ed anche il problema degli sbocchi professionali. La Normale sta attraversando un momento difficile, ma la soluzione è soltanto in parte nostra, prevalentemente è fuori di qui».
A cosa si riferisce?
«In un paese che favorisce l´appiattimento, i laureati d´eccellenza possono avere vita molto dura. L´ottanta per cento dei nostri diplomati merita e legittimamente aspira a fare la carriera universitaria. Ebbene, oggi i concorsi per ordinari associati e ricercatori - quando ci sono - sono piegati a logiche localistiche che escludono i normalisti. Da noi non esiste possibilità di carriera interna, la scelta dei docenti avviene per chiamata esterna, come succede a Heidelberg: la conseguenza è che nei concorsi arrivano primi i candidati interni, con il posto garantito. E le cose non vanno meglio per l´insegnamento nelle scuole superiori. Risultato: negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale il numero dei normalisti che cerca lavoro all´estero».
Voi come intendete porvi rimedio?
«Stiamo valutando l´opportunità di aprire la carriera interna, ma in una percentuale contenuta intorno al 5 per cento, che è poi lo standard di Harvard: così non cambierebbe la politica della Scuola. Ma certo non risolveremmo il problema dello sbocco professionale, che può essere sciolto solo con la modifica dei meccanismi concorsuali. Quel che possiamo fare è aiutare gli allievi a orientarsi nella scena accademica internazionale. Una prospettiva malinconica: o il sistema Italia acquista competitività o i migliori se ne andranno».
E gli studenti che cosa dicono?
«Un mese fa hanno votato all´unanimità un documento in cui respingono il principio della carriera interna. Non vogliono il posto garantito, ma chiedono al paese di essere messi nella condizione di trovare lavoro secondo il merito. Un segnale bellissimo!».
Sotto la sua direzione, la Scuola è sempre più internazionale.
«Da quando l´esame di ammissione avviene anche in altre lingue, è cresciuto il numero degli studenti stranieri. E sempre più forti sono i rapporti con l´École Normale di Parigi, i colleges di Oxford e Cambridge, i dipartimenti di Harvard, Ucla e Chigago. Ora mi piacerebbe creare un istituto di ricerca che possa attrarre studiosi in sabbatico: una formula che in parte ho già felicemente sperimentato al Getty Institute».
I suoi avversari l´hanno accusata di decisionismo. Alla Normale non c´è democrazia?
«Francamente sono critiche pretestuose. Già da un anno esiste un consiglio accademico aperto a tutti, ma non mi sembra molto frequentato. Ora però occorre guardare avanti. Questo è uno dei pochi posti che si potrebbe perfino salvare. Cerchiamo di farlo».


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