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Repubblica: I talenti in fuga scrivono al presidente "Pronti a tornare, ma via i dinosauri"

Lettera di un gruppo di professionisti all´estero: ecco perché ce ne siamo andati

04/12/2009
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la Repubblica

L´Italia è un concentrato di nepotismo e gerontocrazia Affidiamo nelle sue mani la speranza di immaginare un futuro meno nomade
CINZIA SASSO

MILANO - «Illustrissimo presidente, negli ultimi anni centinaia di migliaia di giovani italiani sono emigrati all´estero, per fuggire dal paese più immobile d´Europa. Un concentrato di immeritocrazia, nepotismo e gerontocrazia che ha pochi pari nel nostro Continente». Comincia così la lettera che sedici giovani italiani costretti a scegliere di andare a lavorare all´estero, hanno scritto a Giorgio Napolitano, e le parole pronunciate ieri del presidente sono una prima immediata risposta. Sono artisti, manager, ricercatori, ingegneri, professori, che negli Stati Uniti, in Spagna, Francia, Gran Bretagna, Belgio, hanno trovato quello che cercavano: la possibilità di dimostrare il loro valore, di sfruttare le loro capacità, di dare un senso alla propria vita, di vedere riconosciuto il loro impegno.
Ragazzi che non avevano voglia di stare a casa a fare i bamboccioni; giovani - tra i 28 e i 40 anni, che in nessun altro paese sarebbero ancora definiti ragazzi; uomini e donne che credono in se stessi e nelle competenze che con impegno hanno acquisito. Persone che hanno però raggiunto una convinzione: l´Italia non è un paese per giovani e nemmeno per chi è bravo. A Napolitano hanno raccontato perché, dopo aver provato inutilmente a sfondare in Italia, se ne sono andati; ma anche a quali condizioni potrebbero tornare. E a lui hanno chiesto di fare qualcosa per «rendere questo paese un luogo dove i giovani possano vivere e affermarsi solamente sulla base del merito, senza bisogno di parentele e cooptazioni».
Le loro storie, e anche molte di più, sono state raccolte in un libro, La fuga dei talenti (di Sergio Nava, edizioni San Paolo), che ha saputo anticipare il dibattito che sarebbe esploso. Nel 2006 la fuga dei giovani professionisti italiani è costata al sistema paese oltre un miliardo e 700milioni di dollari: tutto quello che si è speso per formarli, dalle elementari all´università, se n´è andato lontano, a portare ricchezza da un´altra parte. Perché - scrive da New York il compositore Oscar Bianchi - «in Italia la mia "categoria" non ha il diritto di esistere». E Damiano Migliori, ingegnere in Francia: «Sento l´Italia come il mio paese, ma è in declino, e non vedo leve per migliorare». Una sorta di Spoon River. Cristina Cammarano, America, professore universitario: «Come insegnante, in Italia, non avrei potuto nemmeno pagare l´affitto e avrei dovuto agonizzare per anni aspettando la morte del mio "barone" per prenderne il posto». Marco Fantini, economista, Belgio: «L´Italia guarda solo al passato e i diritti "acquisiti" lo sono sempre dalle stesse persone». Patrizia Iacino, designer, Usa: «Il nostro paese è fermo e ha un solo interesse: lasciare intatti i privilegi». Giuliano Gasparini, consulente, Spagna: «Me ne sono andato perché non sono disposto ad accettare che le decisioni da noi vengano prese solo sulla base di interessi specifici». Paolo Besana, ricercatore, Gran Bretagna: «Qui so quello che mi spetta, dalla posizione in coda all´ufficio postale ai riconoscimenti in università, e non devo combattere contro chi cerca di passarmi avanti».
Tornerebbero, scrivono, e però hanno le idee chiare sul cambiamento che vorrebbero: «Se le tasse più alte e la retribuzione più bassa venissero compensate da una riduzione dell´aliquota fiscale»; «se la gente smettesse di pensare che la via furba è quella giusta per raggiungere i propri obiettivi»; «se ci fosse il rispetto dei valori di onestà e legalità»; «se qualche dinosauro venisse sostituito da un giovane di talento»; «se ci fosse trasparenza, non clientelismo e soprusi». «Presidente - conclude la lettera - siamo consapevoli delle difficoltà, ma affidiamo nelle sue mani la speranza di immaginare un futuro meno nomade per i talenti italiani costretti a lasciare il paese che amano».

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