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Repubblica: I soldi alla ricerca non sono un lusso

Salvatore Settis

15/07/2009
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la Repubblica

La tavola rotonda di ieri al Senato sulla riforma dell´Università (coi ministri Gelmini e Tremonti) presuppone un tema molto più vasto e di massima attualità in tutto il mondo: Università e ricerca ai tempi della crisi economica globale. Nessuno ne ha parlato meglio del presidente Obama, in un discorso del 27 aprile alla National Academy of Sciences citatissimo in tutta Europa, ma quasi ignorato in Italia. Dice Obama: «In un momento difficile come il presente, c´è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un lusso quando bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta. Oggi la ricerca è più essenziale che mai alla nostra prosperità, sicurezza, salute, ambiente, qualità della vita. (...) Per reagire alla crisi, oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto nella ricerca applicata e nella ricerca di base, anche se in qualche caso i risultati si potranno vedere solo fra dieci anni o più: (...) i finanziamenti pubblici sono essenziali proprio dove i privati non osano rischiare. All´alto rischio corrispondono infatti alti benefici per la nostra economia e la nostra società». In questo contesto, Obama ha annunciato che l´America investirà più del 3 per cento del Pil in università e ricerca; raddoppierà il bilancio di agenzie di ricerca come la National Science Foundation; triplicherà il numero delle borse post-dottorali di ricerca; accrescerà i benefici fiscali alle imprese impegnate nella ricerca; introdurrà stimoli per l´innovazione in materia energetica e strategie per finanziare progetti pubblici di ricerche che implichino convergenze disciplinari (per esempio, fisica e scienze biomediche).
I tagli imposti a università e ricerca in Italia nel 2008 vanno in direzione esattamente opposta a questa. La legge 133 ha previsto la riduzione del fondo di finanziamento ordinario delle università di 1.441 milioni di euro nel quinquennio 2009-2013, taglio che incide su una situazione già svantaggiata: secondo dati Eurostat, prima dei tagli l´Italia spendeva per l´università lo 0,7 per cento del Pil a fronte dell´1,37 per cento degli Usa; secondo l´OCSE, in Italia l´università assorbe l´1,6 per cento della spesa pubblica a fronte del 3,5 per cento degli Usa, del 2,7 per cento del Regno Unito, del 3 per cento della media OCSE. I tagli della legge 133 sono stati in parte corretti dal decreto legge 180, ma l´università è ancora lontana dal livello di sopravvivenza: ad oggi mancano 300 milioni per coprire i soli stipendi del personale nel 2010, quasi 500 milioni nel 2011. È bene sottolineare che questi tagli corrispondono a precise scelte politiche: il governo ha ritenuto di dare priorità, rispetto a università e ricerca, ai finanziamenti per l´EXPO di Milano (1.486 milioni nel settennio 2009-2015), a quelli per l´operazione Alitalia e ad altri ancora.
Questo dato nettamente negativo non dev´essere tuttavia un alibi per nascondere gli errori (non solo gestionali, ma culturali ed etici) che l´università italiana ha compiuto in questi anni. Troppi atenei hanno violato le leggi spendendo per assegni fissi al personale oltre il 90 per cento del fondo ordinario; troppe volte la riforma degli ordinamenti didattici ("tre più due") ha innescato la moltiplicazione di corsi di laurea, insegnamenti pretestuosi, sovrabbondanti sedi distaccate, inconsistenti "università telematiche"; troppo spesso forme assembleari di governance hanno ucciso il merito e la qualità delle scelte a favore di indiscriminate promozioni sul campo. La micidiale strettoia in cui i tagli del governo hanno cacciato l´università italiana può e deve essere oggi (non sembri un paradosso) l´occasione per un ripensamento profondo, in cui è vitale che chi lavora nell´università sappia analizzare le ragioni culturali e storiche di comportamenti e pratiche gestionali inaccettabili.
È opportuna oggi una riforma generale dell´università? Certamente sì, anche se c´è da scommettere che qualsiasi proposta genererà anticorpi immediati in questa o in quella corporazione. Il ministro Gelmini ha diffuso lo scorso novembre delle "Linee guida" da tradursi in un concreto disegno di legge, da troppo tempo promesso e rinviato. Ne girano varie versioni, ma non è il caso di fare puntuali commenti fino a quando non sarà disponibile la versione finale. Qualcosa però si può già dire. Ha ragione Barack Obama: l´università e la ricerca, anche e soprattutto in una fase di crisi economica globale, non sono un lusso. Al contrario, devono essere motore primario di riscatto e sviluppo, e perciò meritano alti investimenti pubblici, specialmente in Italia dove siamo così lontani dalla media OCSE e dagli obiettivi della strategia di Lisbona (3 per cento del Pil). L´accrescimento, indispensabile, delle risorse investite deve accompagnarsi a una severa correzione di rotta negli ordinamenti delle università e nella loro gestione. Una riforma degna della tradizione culturale italiana e del nostro posto in Europa deve prima di tutto conformarsi agli standard internazionali nella promozione e valutazione del merito. Deve introdurre nuovi meccanismi di reclutamento, anche mediante contratti temporanei con la prospettiva di assunzione in pianta stabile (secondo il modello Usa di tenure track), abbassando drasticamente l´età media dei docenti. Deve resistere alle sconsiderate pressioni in favore di ogni promozione ope legis, che in passato è stata la causa primaria del blocco delle assunzioni e dell´invecchiamento dei docenti, e a ogni mascheramento di possibili terze, quarte e quinte fasce (o colonne), che avrebbero l´effetto di ingessare ancora una volta l´università. Deve riavviare immediatamente i meccanismi concorsuali, arrestando l´emorragia dei giovani migliori, oggi costretti a cercar lavoro all´estero.
Deve sconfiggere l´insensata frammentazione delle discipline, che i cosiddetti "settori scientifico-disciplinari" (invenzione italiana ignota altrove) trasformano in altrettante riserve di caccia. Deve mettere a sistema l´esperienza delle Scuole Superiori a ordinamento speciale, evitandone la proliferazione e introducendo regole certe per valutare e premiare la promozione del merito e l´intreccio didattica-ricerca, anche nelle scuole di dottorato. Deve favorire, mediante la trasparenza delle regole, il diffondersi di un´alta etica professionale, in troppi casi recentemente tradita. Deve evitare per il futuro (introducendo sani meccanismi di governance e di valutazione) la logica perversa dei tagli indiscriminati di bilancio, che (come è avvenuto nel 2008) colpiscano gli Atenei "virtuosi" quanto e più di quelli che hanno violato la legge. Perché una cosa è certa: le riforme a costo zero producono meno di zero. L´Italia merita un´università che stimoli lo sviluppo, sia competitiva a livello non solo europeo ma mondiale, sia il focolaio dell´innovazione, della circolazione delle persone e della libertà delle idee, nell´insegnamento come nella ricerca di base. Le politiche di settore annunciate da Obama, proprio perché sono una reazione alla crisi economica, segnano un rovesciamento di tendenza, The Case for Big Government per dirlo col titolo di un libro recente di Jeff Madrick.
Il governo vorrà andare in questa direzione, come l´intervento dei ministri Tremonti e Gelmini lascia sperare, e cioè investire nell´università e nella ricerca e non solo confezionare un pacchetto di riforme per un sistema condannato comunque a languire?


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