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Repubblica: Eguaglianza e competizione la scommessa dell´università

ALDO SCHIAVONE

08/06/2006
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la Repubblica

Il ministro dell´Università appena nominato è persona di esperienza e di idee, e non ha bisogno di consigli non richiesti. Ma può essere utile fissare – come in una specie di promemoria – qualche punto più tormentato, su cui sarebbe importante si mantenesse vigile l´attenzione della pubblica opinione. Le democrazie dell´alternanza richiedono lungimiranza e cautela, quando si affrontano grandi nodi strutturali (e lo è certo la formazione superiore) sui quali sarebbe impensabile ripartire ogni volta da zero: aspettiamo dunque con fiducia i segni anticipatori della nuova impronta.
Primo: la missione. L´università è diventata, in ogni Paese avanzato, un organismo polifunzionale, che svolge, a differenza del passato, una pluralità di compiti assai diversificata. Una volta educava in modo omogeneo (sulla base di una rigida gerarchia di saperi) élite ristrette, selezionate attraverso rigorosi meccanismi di classe, in Italia particolarmente duri e ingiusti. Oggi questo compito tradizionale appare sommerso dalla necessità – del tutto inedita – di formare masse larghissime di intellettuali (nell´ordine di milioni di donne e di uomini) da avviare a una vita professionale senza un rapporto da protagonisti con la ricerca scientifica e l´innovazione culturale, ma per le quali è tuttavia richiesto il possesso di conoscenze superiori e relativamente complesse. Mentre d´altra parte la stessa educazione delle classi dirigenti e la riproduzione dei ricercatori non avviene più secondo un modello unitario, universalmente ripetibile, ma si compie in modo parcellizzato e segmentato, secondo criteri e priorità conoscitive incommensurabili rispetto a quelle anche solo di qualche decennio fa.
La multiformità delle missioni da adempiere richiede perciò, dal punto di vista istituzionale, soluzioni articolate e grande duttilità. L´importante non è che ogni parte dell´insieme (ateneo, dipartimento, singolo docente) sia in grado di assolvere contemporaneamente la totalità dei compiti da fronteggiare; ma che il sistema universitario nella sua interezza sia capace di rispondere a tutte le domande che lo investono – dalla formazione di base all´altissimo perfezionamento – senza che una parte di esse si orienti altrove (per esempio, fuori d´Italia).
Secondo: la riforma. La nostra università è impegnata da anni in un faticoso processo di rinnovamento, le cui linee di fondo si sono trasmesse senza radicali cambiamenti da una maggioranza di governo all´altra. La direzione intrapresa, comune a tutta l´Europa, consistente nella distinzione-combinazione modulare dei livelli formativi (laurea, laurea magistrale o specialistica, dottorato di ricerca) è quella giusta, e va decisamente proseguita. Ma essa è suscettibile ancora di notevoli miglioramenti, in particolare per quanto attiene all´eccessiva quantità dei curriculum e al potenziamento dell´ultimo livello (quello del dottorato).
Terzo: l´eguaglianza. Una impropria e ampia "corporativizzazione" dei rapporti e delle carriere ha diffuso sull´università italiana un perverso effetto di trascinamento verso il basso (questo riguarda il percorso degli studenti come dei professori). Si sta sporcando così di una polvere che non le appartiene una bandiera della sinistra: quella dell´eguaglianza, che rischia ormai d´essere invocata solo per difendere la conservazione o il privilegio. L´eguaglianza va difesa e potenziata nella garanzia di pari opportunità nell´accesso agli studi di ogni livello, e nella tutela di chi è socialmente più debole, non negli esiti o nell´identità delle carriere. Affermare questo principio è dire, letteralmente, qualcosa di sinistra. Proteggiamo i meno forti, e premiamo il merito e i talenti, investendo su di essi: comunque e dovunque.
Quarto: autonomia e competizione. L´università italiana deve rimanere nel suo insieme un sistema pubblico: lo impongono ragioni di storia e di struttura. Ma all´interno di questo quadro bisogna introdurre – sviluppando sino in fondo la luminosa intuizione di un grande ministro dell´Università, Antonio Ruberti – meccanismi che consentano agli atenei il massimo di autonomia compatibile con la loro funzione, e che li induca a una sempre maggiore diversificazione della propria offerta formativa, e a una sana competizione fra loro, regolata da un accurato dosaggio di mercato e di Stato.
Quinto: valutazione e risorse. Quanto detto presuppone un rigoroso e capillare sistema di valutazione delle performance dei singoli docenti e delle strutture (atenei, dipartimenti, corsi di laurea). Una cultura della valutazione è ancora largamente estranea all´università italiana. Va introdotta, e rapidamente. Si tratta di una questione cruciale, su cui si misurerà – credo – molto dell´azione di governo.
Vi sono Paesi europei, come la Gran Bretagna, dove sono stati compiuti in pochi anni passi decisivi in tale direzione. Dobbiamo essere capaci di fare altrettanto. Un ministro importante dovrà saper legare la battaglia tutta politica per l´ottenimento di maggiori risorse da destinare alla ricerca e all´università, all´introduzione di una rete di incentivi che consenta di destinare l´incremento dei finanziamenti esclusivamente a chi ha fatto meglio, e opera in modo virtuoso.
Per finire: non esiste un modello astratto di università ideale. Oggi meno che mai, quando tutti questi tipi di istituzione, in ogni Paese avanzato, sono sotto l´ala di un turbine, sconvolti da quella rivoluzione permanente delle forme di comunicazione e conservazione dei saperi che è l´anima stessa del nostro tempo; e noi non scriviamo su pietre, ma su sabbia agitata dal vento. E tuttavia questo non ci sottrae all´obbligo di cercare, con pazienza, le soluzioni che volta per volta ci appaiono più promettenti e cariche di futuro.


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