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Repubblica-Dalla riforma Moratti alla proposta Borsellino

LA POLEMICA Dalla riforma Moratti alla proposta Borsellino MAURIZIO MURAGLIA Il male...

29/01/2006
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la Repubblica

LA POLEMICA
Dalla riforma Moratti alla proposta Borsellino
MAURIZIO MURAGLIA


Il malessere del mondo della scuola, come attesta anche una recente indagine comparsa su Repubblica di Palermo, ha superato il livello di guardia. L'impresa educativa appare complicata da una tale quantità di fattori, interni ed esterni alle scuole, da scoraggiare ogni timido tentativo di innovazione. Siamo davanti ad una caduta motivazionale che non risparmia nessuno. Studenti e docenti delle superiori ne hanno piena consapevolezza. Nella scuola del primo ciclo (elementari e medie), la giovanissima età dei frequentanti attenua la forte interpellanza che invece sale sempre più dirompente dalle famiglie degli studenti del secondo ciclo e che acuisce il disorientamento degli insegnanti. Si tratta di una domanda sociale sempre meno implicita che rivolge alla scuola secondaria l'interrogativo di fondo: a che serve la scuola? A che serve come la fate voi? Dare risposte a questa domanda che appare tanto più insidiosa quanto meno esplicitamente rivolta è affare sempre più complicato.
La forbice tra la domanda sociale e la cosiddetta offerta formativa delle scuole si allarga sempre di più. Tentiamo di approfondire.
La formazione scolastica in genere viene intesa in due puntate. Nella prima puntata, entrano in gioco gli alfabeti di base: sapere leggere, sapere scrivere, sapere far di conto. In questa fase le famiglie chiedono condizioni, professionali e strutturali, che consentano ai figli di concludere l'obbligo con una preparazione adatta ad una prosecuzione degli studi ragionevolmente capace di dire qualcosa su "cosa farà da grande mio figlio". In situazioni culturali altamente deprivate, quel che conta è chiudere quegli otto anni decentemente e poi sperare che succeda qualcosa. Nella seconda puntata la domanda sociale si fa più pressante e si divarica a sua volta in domanda di occupabilità e domanda di formazione culturale. La riforma Moratti anticipa a 14 anni tale divaricazione come se le due domande fossero inconciliabili.
Anche immaginando, nel prossimo futuro, uno scenario politico - di politica nazionale e di politica locale - che crei condizioni ordinamentali e strutturali di vivibilità del fare scuola (organici funzionali, edilizia, tempo pieno, obbligo scolastico fino a 16 anni, aumenti stipendiali e quant'altro), quale rapporto la scuola saprà instaurare con una domanda sociale che, per quanto spesso minimalista perché si attesta troppo spesso solo su voti e pagelle, interpella in profondità il rapporto che la scuola sa instaurare tra sapere scolastico e cultura del lavoro, tra cultura della scuola e cittadinanza?
Su questi temi a mio parere il dibattito non decolla. Le scuole approvano molte attività che integrano l'offerta del mattino per consentire agli studenti di fare esperienze culturali capaci di interessarli. Ma non risulta che le scuole superiori discutano molto sul modo in cui la letteratura o le scienze o la storia possano permettere agli studenti di intrufolarsi nella complessità culturale e mediatica del mondo che sta fuori dalle aule. Quando assistiamo alla pantomima decembrina delle occupazioni, tocchiamo tutti con mano la difficoltà degli studenti a muoversi nella polis, a "lavorare" per far chiarezza sulle cose e porre le giuste domande a chi governa. Sono proprio queste le situazioni che rivelano quanto sia problematico il rapporto tra cultura della scuola e cittadinanza attiva. Per radiografare meglio la situazione, basterebbe fare un sondaggio per conoscere quante classi quinte studiano la cultura europea ed italiana degli ultimi trent'anni del Novecento.
Il problema del lavoro infatti non è soltanto il problema della occupabilità. Il problema del lavoro è anche il problema della capacità di disporre di strumenti culturali capaci di interagire criticamente e cooperativamente con le logiche e le tecnologie sociali. Il cosiddetto "pezzo di carta" troppe volte rischia di essere l'esito di un percorso costellato di saperi e nozioni del tutto avulse dalla contemporaneità, dunque non tradotte in cultura, intesa come cultura della cittadinanza, cultura politica, cultura del lavoro. Nè sarà la semplice immissione di esterni nelle commissioni di maturità (comunque auspicabile) a garantire una simile traduzione al di fuori di un ripensamento della modalità con cui i saperi della scuola incontrano la complessità del contemporaneo.
In epoca di programmi politici sulla scuola, che invocano il protagonismo degli insegnanti, occorre intendersi su quali terreni debba esercitarsi un simile protagonismo: sui terreni delle grandi petizioni di principio che, ci si faccia caso, stanno sempre negli articoli 1 di tutte le leggi sulla scuola, di qualsiasi colore politico esse siano, oppure, all'opposto, sul piccolo cabotaggio della rivendicazione impiegatizia? Il problema non è soltanto "fermare la Moratti". Il problema è costruire le condizioni che non rendano plausibili ipotesi come quella Moratti, fondate sulla divaricazione tra cittadini pensanti e cittadini addestrati al lavoro.
Saranno capaci i politici siciliani, ad esempio, e la nostra Rita Borsellino su cui tante speranze oggi si concentrano, di coagulare il mondo della scuola siciliana attorno a tre-quattro nodi di grande respiro culturale e pedagogico che rispondano alla domanda di sensatezza del fare scuola di ogni giorno e su questi costruire un programma politico?


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