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Repubblica: Dal gioco alla scuola, l'educazione dei bimbi rom

L'inchiesta

12/08/2008
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la Repubblica

Anais Ginori

L´altro giorno hanno visto sbarcare la Cnn, prima erano venuti il sindaco Alemanno con Bruno Vespa. Ogni tour - e ormai qualsiasi campo si è dotato di una guida per politici e giornalisti - suscita battute, possibilmente soundbite, come dicono gli americani. Frasi ad effetto che garantiscono un titolo sulla stampa. «Peggio dei palestinesi» ha commentato il sindaco di Roma uscendo dal Casilino 900. Ma parlare di emergenza qui è un controsenso. Trent´anni che va avanti così.
Rom, sinti, camminanti: quasi impossibile tenere un tutto che sfugge alle catalogazioni. La metà è nata o risiede stabilmente in Italia da decenni, alcuni da secoli come i sinti abruzzesi. Gli altri sono apolidi, scappati da una nazione, la ex Jugoslavia, che non c´è più, oppure europei a tutti gli effetti come i rom-romeni o i manouches che vengono dalla Francia. «Non stranieri, comunque. Impossibili da rimpatriare» spiegano i funzionari all´ufficio immigrazione di Roma, un fortino vicino alla tangenziale, circondato da barriere e filo spinato. Dalle loro finestre, si vede un altro campo nomadi sopra il quale svetta la bandiera italiana
«È vero, abbiamo le nostre colpe. Ma è la fame che ci trasforma in mostri». Milan sorseggia un caffè turco. Ventiquattresimo chilometro della Pontina, una colonna di container. Quest´uomo con i baffi e i denti marci non ruba, precisa. In passato sì. Adesso fa il fabbro riciclando ferri vecchi. Ha cinque figli. Quelli più grandi si "arrangiano", spiega. Per i più piccoli c´è una speranza, vanno a scuola. I pulmini del Comune e dell´Arci vengono a prenderli ogni mattina. In famiglia non ci sono accattoni né ladruncoli, assicura Milan anticipando la domanda. «Con quella vita abbiamo chiuso». Però ricorda bene come funziona. I minorenni, racconta, sono una fonte di reddito garantita e sicura: fino a 14 anni non sono punibili per legge. Se i poliziotti li fermano, dopo qualche ora sono di nuovo in libertà. Eppure, nonostante i tanti casi di cronaca, la delinquenza minorile dei "nomadi" rappresenta soltanto il 12% delle segnalazioni alla Giustizia (il 67% sono italiani). «La vera emergenza è il razzismo che si sta creando» sbotta Roberto Malini. «In Italia, siamo passati dall´emarginazione alla persecuzione» sostiene il presidente del gruppo EveryOne che accumula denunce e segnalazioni. Il 47% degli italiani non vorrebbe un rom come vicino di casa, secondo un sondaggio dell´Ue. È la percentuale più alta d´Europa, insieme alla Cecoslovacchia (la media europea è del 24%).
Rebecca Covaciu ha traslocato tre volte in un anno. L´ultima fuga da Ponticelli, Napoli, dopo che le bombe molotov hanno mandato in fiamme il campo. «Rebecca commuove l´Italia» scriveva qualche giorno fa El Paìs, raccontando la storia di questa bambina romena premiata dall´Unicef per la sua serie di disegni «I topi e le stelle». In verità, a commuoversi è stata soltanto una famiglia italiana di Potenza che ha ospitato i Covaciu. Per Rebecca, come per altre decine di migliaia di bambini rom in Italia, non esiste domani. «Nelle loro condizioni è difficile crescere, quasi impossibile invecchiare" spiega Ivan Moschetti. L´aspettativa di vita è di 40 anni. Insieme ad altri volontari dell´associazione Naga, questo medico milanese visita periodicamente i campi disseminati nell´hinterland della sua città. Con gli sgomberi o le minacce (che a volte sono ancora più efficaci), le famiglie scappano o si nascondono. Dall´insediamento di via Triboniano, dice, sono scomparsi piccoli cardiopatici e asmatici che necessitano di cure e terapie.
Senza integrazione non c´è futuro. E senza scuola non c´è integrazione. Soltanto uno su tre impara a leggere e a scrivere, recitano le statistiche. Ma quando c´è un domicilio, le cose cambiano: nei campi autorizzati la frequenza tra i banchi supera il 70% dei minorenni. «La frequenza è soltanto un punto di partenza» avverte Mariangela de Blasi dell´Arci. Le maestre non riescono ad integrare i nuovi arrivati, che hanno un idioma - il romanès - ereditato dal sanscrito. I presidi si dividono: limitarsi a tre nomadi per classe, o fare finta di niente? «Ho visto alcuni istituti chiedere che venisse riconosciuto l´handicap per questi bambini: in realtà volevano solo ottenere più maestri e lavorare di meno» racconta Giovanni Zoppoli, educatore napoletano. La storia di "Jr" riassume da sola i limiti della scuola italiana. Questo bambino rom di 8 anni, che si faceva chiamare come il protagonista del telefilm Dallas, era talmente impaurito dai compagni e dall´ambiente che non accettava di entrare in classe senza uno dei genitori. Zoppoli, chiamato per aiutare il bambino, ha deciso di iniziare le lezioni con dieci minuti di boxe, la passione di Jr. Gli altri bimbi ridevano, Jr continuava a osservare, sospettoso. Dopo un po´, il piccolo ha accettato di andare a scuola non accompagnato. «È bastato uno stratagemma per penetrare il suo mondo e avvicinarlo al nostro» ricorda Zoppoli. All´incontro più toccante, quello con il piccolo Gago di Scampia morto a sei anni per una cardiopatia, ha dedicato una magnifica favola illustrata. «Se vogliamo proprio fare confronti - prosegue Zoppoli - questi bambini hanno qualcosa in più, non in meno. Hanno la poesia, una capacità di intuizione che spesso i nostri bambini hanno perso».
Nel 2005 l´ex ministro della Pubblica Istruzione Letizia Moratti aveva firmato un protocollo per favorire l´integrazione dei bambini rom a scuola, promettendo mediatori nelle classi e aggiornamento degli insegnanti. Il piano non è mai stato finanziato. Ora ci riprova il ministro Mariastella Gelmini. Aspettando le promesse dei governi che si succedono, questi bambini hanno un destino segnato. Faticano a fare i compiti, accumulano ritardo nel programma. I genitori non possono aiutarli, spesso non partecipano neanche alle riunioni di classe. Alle medie, le apparenze cominciano a pesare: i poliziotti che ti fermano per un controllo, i compleanni senza casa per fare la festa, le mamme che scoraggiano "cattive amicizie". I ragazzi realizzano che non potranno mai diventare come i gagè (il nome dei «non rom»). Pochissimi, 10 su mille, vanno alle superiori. Gli altri, tornano ai margini. Finiscono per "arrangiarsi", come dice Milan.
Diana vuole fare l´avvocato da grande. Ha 11 anni, lunghi capelli dorati, gote rosa, degli occhi verdi lucenti. Sua madre ha avuto cinque figli ma lei è certa: «Avrò un maschio, una femmina, e basta». La nonna dopo le prime mestruazioni già pensava ai ragazzi. Lei: «No, più tardi. A me piacciono i cartoni, saltare la corda, giocare a nascondino». Studia in seconda media, è brava in matematica e ha un rapporto "speciale" con la maestra Claudia. La sua migliore amica è una gagè, si chiama Sofia. Il sabato ogni tanto vanno al McDonald´s con gli amici, oppure si ritrovano tra ragazze a chiacchierare dell´ultimo episodio di Rossana, beniamina dei cartoni. Vive con altre sei famiglie in un piccolo casale vicino al Tevere, in vicolo Savini. La costruzione era diroccata e piena di immondizia. Loro hanno pulito, rifatto tetto, solai, porte. Adesso ci sono anche gli allacci, pagano un canone di locazione con l´ente case popolari. «Qui abbiamo conquistato una dignità» dice Muradic, il capo clan. Il suo figlio più piccolo ha un nome italiano, Armando. Le donne lavorano tutte. La madre di Diana in una tintoria, la zia in una cooperativa di sarte che cuce vestiti riciclando tessuti. Pochi giorni fa è arrivato l´avviso di sgomberare. Il terreno serve per costruire una piscina olimpica. «Non me ne vado. Né viva né morta» urla la nonna Razia, matriarca con quarantuno nipoti. Piange. Diana rimane silenziosa. Forse ha capito che qualcuno potrebbe rubarle i suoi sogni. Diana, perché vuoi diventare avvocato? «Per aiutare gli altri». Anche i gagé? «Tutti i miei amici».

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