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Repubblica: Corsi blindati all´università numero chiuso per 1 su 3

Gli studenti: troppi test. Mussi: hanno ragione

08/09/2007
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la Repubblica

IL DOSSIER
I rettori: solo selezionando gli ingressi si garantisce l´offerta formativa

La legge del 1999 stabilisce la "programmazione" nazionale obbligatoria solo per sei corsi universitari
Guido Trombetti, presidente della conferenza dei rettori: "E´ un meccanismo che non mi è mai piaciuto, ma è necessario"
SALVO INTRAVAIA

ROMA - Scoppia la guerra sul numero chiuso negli atenei italiani. I corsi a numero chiuso sarebbero poco meno di quelli dell´anno scorso, 909 contro i 1.065 del 2006 secondo il ministero, addirittura 1.400 secondo l´Unione degli Universitari. E gli studenti lanciano la campagna "Divieto d´accesso", chiedendo l´abolizione del numero chiuso in tutti gli atenei italiani. Battaglia in parte sostenuta dallo stesso ministro dell´Università, Fabio Mussi, che lo scorso mese di marzo aveva bacchettato i rettori invitandoli a limitare i corsi numero programmato. In una lunga lettera indirizzata ai vertici delle università italiane ricordava agli interessati la normativa vigente giudicando «ogni limitazione del numero degli accessi al di fuori delle fattispecie indicate dalla legge un´ingiustificata limitazione del diritto allo studio garantito dall´articolo 34 della Costituzione, in più casi censurata dai giudici amministrativi». Una strigliata a tutti gli effetti.
Ma come stanno le cose? Una legge del 1999 stabilisce che per 6 facoltà (Architettura, Medicina, Veterinaria, Odontoiatria, Scienza della formazione primaria e per i titoli che abilitano alle Professioni sanitarie, come Logopedia, Ostetricia e Fisioterapia) il numero di posti è programmato a livello nazionale. Quest´anno sono disponibili 51.870 posti contro i 55.484 dello scorso anno accademico. Ma appellandosi alla stessa legge che fissa i posti per camici bianchi e veterinari gli atenei mettono in atto una programmazione a livello locale che interessa quasi un terzo dell´offerta formativa totale: 909 corsi su 3.065. Il perché lo spiegano gli stessi rettori che preferiscono parlare di "numero programmato". «Programmiamo gli accessi - dice Giudo Fabiani (Roma Tre) - in relazione alle risorse che abbiamo e alla domanda. Non occorre drammatizzare perché la programmazione degli accessi è un modo per garantire la qualità dell´offerta formativa, per orientare i ragazzi e per responsabilizzarli». Nell´ateneo romano i corsi sono tutti a numero programmato ma la soglia è «commisurata alle richieste». Gino Ferretti, a capo dell´ateneo di Parma si appella ai criteri stabiliti dalla normativa sulla cosiddetta «offerta potenziale»: posti nelle aule, laboratori scientifici, personale docente, ecc. «Non rispettare la norma potrebbe pregiudicare il valore legale del titolo che rilasciamo. Se poi ho troppi studenti - spiega Ferretti - devo sdoppiare il corso e non sempre ho a disposizione i professori per tenere le lezioni. Il fatto è che il numero chiuso è utile ma impopolare e si cerca di scaricare il problema sulle università». Non è dello stesso parere Guido Trombetti, presidente della Crui, la conferenza dei rettori: «Ho sempre avuto un´avversione di pelle al cosiddetto "numero chiuso". Soprattutto se legato ad un quiz. Meccanismo trasparente ma inadeguato a rilevare il talento richiesto per essere un buon medico o un buon architetto. In realtà continua Trombetti - non vi è un solido fondamento etico su cui si basi l´istituto del "numero chiuso". Si tratta solo di una misura di carattere pratico. In alcuni campi del sapere gli atenei non hanno le strutture e le risorse per accogliere tutta la domanda. In sostanza è una medicina necessaria ma amara».
I numeri di quest´anno (70 mila candidati a Medicina e 100 mila ad Architettura) sono ancora incompleti ma per rendersi conto del fenomeno basta riferirsi a quelli dello scorso anno. Tra programmazione nazionale e locale, nei 37 atenei italiani, si sono presentati per sostenere i test 445 mila ragazzi per 179 mila posti. Quasi 100 mila hanno gettato la spugna prima di sedersi a risolvere i test e in 287 mila non ce l´hanno fatta. Per sostenere i test gli atenei chiedono un contributo che varia dai 25 ai 110 euro. Per un giro d´affari di 25 milioni di euro che si moltiplicano se aggiungiamo il costo di viaggio, l´albergo e qualche frugale pasto.


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