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Repubblica: Come salvare l'Università italiana

Massimo Ammaniti

24/10/2008
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la Repubblica

Assemblee di studenti, occupazioni, blocco delle lezioni in molti atenei italiani con l´inizio del nuovo anno accademico. Si tratta delle solite ritualità che si ripetono nel corso degli anni per poi spegnersi senza nessun risultato oppure quest´anno ci troviamo di fronte a una situazione di emergenza che aggrava i mali storici dell´Università e che dovrebbe trovare soluzioni alternative?
Come è noto l´Università ha rappresentato un organismo fragile nel sistema formativo italiano: leggendo la recente pubblicazione "Uno sguardo all´educazione 2008: Indicatori dell´Ocse" si scopre che gli investimenti economici per l´Università in Italia sono al di sotto della media dei paesi dell´Ocse, lo 0,9% del Pil rispetto all´1,5 % in media e molto al disotto del 2,9% degli Stati Uniti e del 2,6% del Canada. La quasi totalità dei paesi investe di più, come ad esempio la Grecia, il Portogallo, la Turchia, la Polonia, l´Estonia. Analizzando poi la spesa per ogni singolo studente si spende in Italia 8.026 dollari l´anno, mentre la media dell´Ocse è di 11.521 dollari a studente, più del 40%.
Perché nella classe politica non c´è mai stata una vera attenzione per i giovani e per l´istruzione universitaria, nonostante ogni ministro dell´Istruzione abbia sempre proposto, soprattutto negli ultimi anni, una propria riforma dell´ordinamento degli studi e delle norme concorsuali per l´ingresso dei docenti. Queste Riforme non hanno certo migliorato il funzionamento universitario, mentre hanno obbligato il corpo docente a ridiscutere e ad elaborare ogni volta schemi didattici farraginosi, in cui vi era maggiore attenzione per la distribuzione dei crediti dei vari insegnamenti e per gli organigrammi dei docenti per rispondere ai vincoli del Ministero, più che definire il profilo professionale e le competenze dei futuri laureati in modo da rispondere alle esigenze del mercato del lavoro.
Non dobbiamo dimenticare le responsabilità del corpo docente che in molti casi ha privilegiato la logica dell´appartenenza a quella del merito, scoraggiando i giovani, soprattutto quelli meritevoli, spingendoli a rinunciare oppure ad emigrare in altri paesi, a cui abbiamo fornito, senza alcun costo, un capitale umano che ha saputo farsi valere. In questo quadro di responsabilità non dimentichiamo che c´è stata una proliferazione periferica di sedi universitarie, che, oltre a comportare ulteriori costi, non garantiscono inevitabilmente un adeguato livello didattico e ancora di più della ricerca, che non si può improvvisare in mancanza di laboratori, di competenze e di finanziamenti.
Se questa è la situazione dell´Università che si è venuta via via sedimentando dopo gli anni ?70, oggi con la recente approvazione della legge n. 133, la situazione già così precaria delle Università italiane, soprattutto quelle pubbliche, rischia di crollare definitivamente. Vi è un taglio drastico dei finanziamenti all´Università, il Fondo di finanziamento ordinario per il funzionamento universitario sarà ridotto di 1.500 milioni di euro, per cui gli 8.000 dollari a studente verranno ridotti in modo consistente con gravi conseguenze sulla vita e l´organizzazione didattica quotidiana della vita universitaria. Anche l´ingresso, ossia il turn-over di nuovi ricercatori e docenti è gravemente ridimensionato, per cui di fronte al consistente pensionamento di docenti nei prossimi anni solo il 20% di questi potrà essere rimpiazzato, praticamente chiudendo le porte dell´Università alle nuove generazioni e abbassando il livello qualitativo della didattica, per cui peggiorerà ancora di più il rapporto docenti-studenti. Ma anche la ricerca universitaria ne verrà a soffrire, perché i finanziamenti verranno ugualmente ridotti da 160 milioni di euro a 98 milioni, addirittura dimezzati. Anche la possibilità di trasformare le Università in fondazioni di diritto privato, come è previsto dalla legge, non riguarda la maggior parte delle Università, intanto perché il contesto italiano è molto diverso da quello americano e sicuramente non sarebbe facile attrarre fondi privati, a meno che non si preveda di ottenere maggiori introiti dalle tasse di iscrizione.
Motivi di protesta ce ne sono, come avevano fatto presente i rettori delle Università che avevano addirittura minacciato le loro dimissioni. Ma il pericolo oggi è quello di ripercorrere forme di lotta ormai rituali, come le occupazioni o il blocco delle attività didattiche, che dopo una fase di sostegno da parte degli studenti, perlomeno una parte, isolerebbe l´Università che si ripiegherebbe su se stessa senza che l´opinione pubblica e soprattutto le famiglie degli studenti capirebbero i motivi dell´agitazione. Occorre che gli studenti ma ancora di più i docenti facciano capire i rischi che corrono i giovani oggi con un´Università sempre più dequalificata, ma anche il futuro sviluppo economico del paese che dipende dal capitale umano dei giovani che con le proprie competenze e la propria creatività possono rappresentare un importante stimolo. I tagli all´Università e alla ricerca devono essere rimossi, tuttavia questo non basta, occorre anche riqualificare la spesa tagliando i rami secchi, come Università periferiche poco produttive oppure corsi di laurea con poche iscrizioni. E poi va reintrodotto il merito a tutti livelli, valutando le capacità didattiche dei docenti e la loro produttività scientifica, ancorando a questo gli stipendi. Qualche parola infine sulle tasse di iscrizione. Anche in questo caso è necessario far pagare di più gli studenti che provengono da famiglie che hanno un reddito superiore, utilizzando gli introiti per creare borse di studio effettive per studenti meritevoli provenienti da famiglie a basso reddito. Non è il libro dei sogni si tratta soltanto di renderci conto che quanto si investe sui bambini e sui giovani ha un ritorno in termini di redditività sociale, come ha dimostrato il Premio Nobel per l´economia James Heckman.


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