Renzi apre alle modifiche «Ma il futuro della scuola non è in mano ai sindacati»
Il premier: discutiamo senza cambiare i punti sostanziali
ROMA «La scuola italiana non è dei sindacati, è degli studenti e del loro futuro e negli ultimi decenni questo futuro non lo ha costruito. Con questa riforma per la prima volta l’autonomia non è solo una parola introdotta da Berlinguer, ma un concetto su cui stiamo investendo e cambiando tutto».
Matteo Renzi guarda le piazze, le manifestazioni, il primo sciopero generale della scuola dopo 7 anni, ma non cambia idea. «Non cediamo di un millimetro», su questo come su altri punti. «Ho appena rischiato di andare sotto sulla legge elettorale figuriamoci se ci fermiamo perché i sindacati e tanti professori difendono un sistema scolastico costruito su un’ipocrisia, un’autonomia che non è mai realmente partita, una scuola scollegata dal mondo del lavoro, un preside che non può decidere nel proprio istituto».
Del resto è la «sua» riforma anche in senso letterale: il testo che gli fu presentato, il giorno prima del Consiglio dei ministri che approvò la riforma, lo giudicò «poco coraggioso». Finì di leggerlo e le sue mani strapparono in due i fogli della bozza, davanti ad un attonito ministro. Palazzo Chigi riscrisse, il governo il giorno dopo approvò la nuova versione, con le correzioni che Renzi in prima persona volle a tutti i costi.
Anche per questo, oggi, davanti alla protesta, le aperture del premier possono essere «sulle modalità di assunzione» dei precari, come ha detto ieri a Trento, o ancora su correttivi organizzativi, o ancora sul potenziamento dei poteri del consiglio d’istituto, ma su tutto il resto figuriamoci «se ci mettiamo a concertare».
Ed è curioso che ieri sia stato proprio Renzi a tendere, almeno a parole, una mano alle ragioni dei manifestanti, «siamo disposti ad ascoltare e condividere, confrontarci su tutto con grande serenità». E questo mentre invece il ministro offriva ai cortei dello sciopero la faccia più dura, e si incaricava di bollare la protesta come «politica ed elettorale».
Renzi non lo ha fatto, pur condividendo il giudizio, ma ha fatto sapere, ovviamente anche al suo partito, che i pilastri della riforma non si toccano: potenziamento dell’autonomia e poteri del preside, che può avere alcuni contrappesi, ma che deve conservare la possibilità di scegliere realmente i docenti, di avere in concreto la capacità, anche finanziaria, di essere considerato «come il sindaco di una piccola città» (metafora governativa che richiama l’esperienza precedente del premier) e di conseguenza valutato se non è all’altezza.
Insomma una cornice che riapre lo scontro, almeno ideologico, di alcuni giorni fa, su un tema apparentemente molto distante, come la legge elettorale. Ieri Civati e altri della minoranza dem hanno giudicato la riforma della scuola «lontana dalla nostra cultura politica».
Per Renzi invece dare più poteri e più responsabilità al preside-sindaco, togliendone magari ai sindacati, significa esattamente il contrario: introdurre elementi di trasparenza, democrazia decisionale, merito e responsabilità, che dovrebbero riavvicinare il nostro sistema a quello di Paesi che hanno migliori risultati e maggiori risorse da spendere.
È una frattura, anche ideologica, difficilmente componibile. Renzi immagina un preside che deve essere valutato ed eventualmente sanzionato se la scuola non è all’altezza: poteri insieme a responsabilità, reali. Stigmatizza come se fossero la ragione di tutti i mali «le circolari ministeriali e sindacali». Una parte del suo partito ha costruito e difeso il mondo delle circolari, all’insegna di una centralità ministeriale, e di un’idea egualitaria di scuola, che per il leader del Pd hanno finito per soffocare l’istruzione.
Per questo gli emendamenti che in queste ore si discutono in Parlamento passano il vaglio diretto del premier: nel confezionare l’offerta formativa il preside può essere affiancato dal consiglio docenti, nel premiare il merito può essere «coadiuvato» da un comitato di valutazione, due emendamenti, via libera da Palazzo Chigi. Ma sullo scegliere i docenti il potere del preside-sindaco non può essere intaccato. Per Palazzo Chigi è stato pollice verso.