Regionalismo differenziato: la ministra Gelmini ci riprova
L’intenzione è ripartire dalla proposta dell’ex ministro Boccia di legge quadro, mai approdata in Consiglio dei ministri e in Parlamento.
Massimo Villone
La Ministra per gli affari regionali, Mariastella Gelmini, rilancia l’autonomia differenziata proponendo lo stesso adagio di sempre: accordi tra regioni, nessun dibattito parlamentare. In audizione presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale sostiene di voler accelerare: il regionalismo differenziato è in cima alle priorità.
La cacofonia istituzionale che ha accompagnato le alterne vicende della crisi, il valzer delle aperture e delle chiusure, e oggi il fai da te locale persino sul fronte delle vaccinazioni, hanno evidenziato che la segmentazione territoriale può produrre discriminazioni inaccettabili anche per diritti assolutamente essenziali. Anche la spinta europea verso una riduzione dei divari che affliggono il paese – donne, giovani, Mezzogiorno – impone forti politiche pubbliche nazionali in specie sul rilancio del Sud come sistema produttivo. Senza, il recupero delle distanze rimane un miraggio. Può essere mai questo il momento di dissotterrare la salma del regionalismo differenziato?
La ministra Gelmini, in audizione il 26 maggio presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale, ha rilanciato il circo del regionalismo differenziato. L’intenzione è ripartire dalla proposta dell’ex ministro Boccia di legge quadro, mai approdata in Consiglio dei ministri e in Parlamento.
Riprende la notizia con toni trionfalistici il “Corriere del Veneto del 30 maggio”. Ci informa che l’autonomia è in cima alle priorità della Gelmini, e delinea il percorso che i pasdaran del separatismo soft intendono seguire. Anche, tra l’altro, costruendo un osservatorio tecnico- scientifico come contraltare alla Svimez, la società che studia i problemi del Mezzogiorno, declassata a “ufficio studi”.
La posizione della Gelmini, già dalla prima ora in campo per l’autonomia differenziata lombarda, non sorprende. Ma è una pessima notizia, anzitutto per il metodo. La ministra ci ricorda che la proposta Boccia era stata approfondita con la conferenza delle regioni e con i singoli governatori. Vuole seguire la stessa strada, confermando l’emarginazione delle assemblee elettive. A quando un dibattito parlamentare senza rete? A quando il prendere atto che esigenze nazionali e unità della Repubblica male si collocano in conferenze e concertazioni con i territori? Che prevalgono in esse gli scambi al massimo ribasso? Che hanno aggravato la minorità politica ed economica del Mezzogiorno? Forse non sono bastati mesi di dibattito e di contrapposizione aspramente polemica su questi temi.
Quanto al merito, la ministra suggerisce per la proposta Boccia rivisitazioni e modifiche volte ad accelerarne i passaggi. Bisognerebbe invece prendere atto che le lentezze trovano ragione in nodi tecnici e politici mai sciolti. Ai quali la crisi sanitaria ed economica provocata dall’emergenza mondiale del Coronavirus aggiunge ora ulteriori elementi di perplessità. Almeno tre i punti principali all’attenzione.
Il primo. Nessuno ha mai risposto davvero all’obiezione sulla inidoneità tecnico-giuridica di una legge quadro a porre effettivi argini a pulsioni separatiste, che potrebbero al contrario venirne favorite e aggravate. La legge di approvazione dell’intesa ex art. 116.3 della Costituzione potrebbe superare limiti e procedure posti con la legge quadro, che è e rimane legge ordinaria. Mentre non sarebbe vero il contrario, per lo speciale procedimento previsto dall’articolo 116.3.
In breve, la legge quadro non fermerebbe le voglie separatiste, mentre invece potrebbero essere bloccati i tentativi volti a correggerle una volta realizzate. Infatti, le “forme e condizioni particolari di autonomia” una volta attribuite potrebbero essere modificate o cancellate solo con il consenso della regione beneficiaria. Come si correggerebbe il vantaggio indebitamente attribuito a questa o quella regione per l’occasionale consonanza politica fra quella regione e la maggioranza nel parlamento nazionale? Sarebbe poi preclusa persino la via di un referendum abrogativo.
Il secondo. Proprio la rigidità dell’impianto ex art. 116.3 consiglia che l’autonomia differenziata sia messa in standby nel momento in cui la crisi sanitaria ed economica ha chiarito ampiamente la necessità di ripensare il rapporto tra Stato e Regioni, recuperando una centralità del primo.
La cacofonia istituzionale che ha accompagnato le alterne vicende della crisi, il valzer delle aperture e delle chiusure, e oggi il fai da te locale persino sul fronte delle vaccinazioni, hanno evidenziato che la segmentazione territoriale può produrre discriminazioni inaccettabili anche per diritti assolutamente essenziali. Le cronache di questi mesi sono lì a dimostrarlo.
Il terzo. La spinta europea verso una riduzione dei divari che affliggono il paese – donne, giovani, Mezzogiorno – impone forti politiche pubbliche nazionali in specie sul rilancio del Sud come sistema produttivo. Senza, il recupero delle distanze rimane un miraggio.
Aggiungere alla locomotiva del Nord una locomotiva del Sud volta al Mediterraneo è la scommessa che può davvero cambiare faccia al paese e ricostruirne la competitività. È qui l’interesse comune del Nord e del Sud al rilancio produttivo del Mezzogiorno. È qui l’interesse del Mezzogiorno a coordinarsi e fare rete per essere protagonista e orientare l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Solo così si porrà fine alla favola velenosa del Sud tenuto a galla dalla generosità del Nord.
Ma il Pnrr assume davvero la riduzione del divario Nord Sud come obiettivo strategico, come vorrebbe la stessa Europa? Per molti, al Sud va un omaggio solo verbale. Inoltre, scrivere il Piano è cosa ben più facile che attuarlo, e il decreto sulla governance in arrivo delinea poteri speciali a Palazzo Chigi per garantire il rispetto dei tempi. Può essere mai questo il momento di dissotterrare la salma del regionalismo differenziato?