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Quattro modi per essere insegnanti

di Roberto Contu

03/09/2016
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In aula docenti

Non mi piace l’aula docenti. Durante le mattinate dell’anno scolastico, se ci sono molti insegnanti, è rumorosa del rumore che tira fuori il peggio dei presenti. Se è vuota è silenziosa di un silenzio fragile, sempre sul punto di essere violato da qualcuno. Impossibile studiarci dentro. Di pomeriggio sa essere inquietante come ogni luogo vuoto della Scuola, nei tempi dell’anno che non sono i suoi. Per questo preferisco nelle ore libere la biblioteca, un’aula comune o anche il bar, luogo per lo meno più onesto verso la sua natura. Eppure ogni tanto anche in aula docenti succede il piccolo miracolo di un momento leggero, isolato dal tutto, uno scambio con un collega che diventa amico.È quanto mi è capitato un giorno di settembre, a scuola ancora non iniziata, durante un’ora vuota in attesa del dipartimento d’inizio anno.

Mi ero portato il manuale nuovo di fresca adozione, avevo iniziato a sfogliare qualche pagina, quando ho incrociato lo sguardo con un insegnante più anziano di me. Abbiamo iniziato a chiacchierare, per una volta non delle malefatte del dirigente o del collega di turno (sarei tornato al manuale di fresca adozione all’istante) ma di qualcosa che avrebbe continuato a ronzarmi in testa per giorni. Quella mattina, durante quell’ora vuota, è stato un interrogativo apparentemente inconsistente per la sua genericità a mettere in relazione me e il mio collega: abbiamo iniziato a discutere a partire dalla domanda «quali sono secondo te i modi in cui si può essere insegnante?». Non ricordo per filo e per segno le argomentazioni portate da entrambi, ma ricordo le conclusioni a cui siamo giunti insieme. Per raccontarle qui ho deciso di adattare in modo retorico e decisamente poco ortodosso un modello assai antico, la cui paternità non dovrebbe sfuggire al lettore attento. Alla fine di quella chiacchierata, sono risultati essere dunque quattro i modelli di insegnante su cui io e il mio collega ci siamo trovati d'accordo.

Primo

Un primo modo per essere insegnante è quello di farlo per sé. Per il posto fisso, per il posto fisso vicino casa, per il posto fisso vicino casa meglio se a piedi. Per «i tre mesi di ferie all’anno», perché «tanto chi ti controlla», perché in fondo «sono solo cinque minuti di ritardo». Perché comunque poi ti chiamano professore, perché «ah no questo non mi è dovuto, quello nemmeno, quest'altro qualcun altro lo farà», perché «oggi mi gira così e io faccio così». Esistono questi insegnanti nella Scuola, certo che esistono. Esistono ogni volta che si scrive una programmazione come fosse una lista della spesa, ogni volta che si salta un argomento perché tanto «ma che ne sanno questi e io sono stufo», ogni volta che «adesso prendete il libro e studiate da pagina a pagina perché devo compilare dei fogli». Esistono ogni volta che il ragazzo diventa il rompipalle, la sua valutazione una crocetta tra tante, il suo fallimento uno «gli sta bene». Esistono ogni volta che è colpa del ministro, del dirigente, del collega, punto. E fanno i danni questi insegnanti, certo che fanno i danni. A volte sono come la grandine a maggio, portano sale dove c'è bisogno d'acqua, rompono rami che andrebbero curati. Troppe volte coprono il solco di chi un'ora prima ha arato, tarpano forza e fiducia a chi per età è giusto ancora le cerchi, mettono il tetto ad un posto adatto al cielo. Da troppi anni dicono alla società che poi la Scuola è quella, che l'insegnante in fondo è quello, che alla fine anche il ragazzo è normale sia quello. Per questi insegnanti, resta lo stipendio e la possibilità di passare quarant’anni evitando di esistere. Disattendono la responsabilità che determina la libertà. Rubano il tempo a chi si apparecchia a viverlo. Il primo modo per essere insegnante è farlo per sé, e può essere davvero un mestiere orribile, anche per chi lo fa.

Secondo

Un secondo modo per essere insegnante è quello di farlo per l’altro ma per farlo per sé. Se il primo modo di fare l’insegnante chiama al semplice mantenimento del proprio stato di comodo, esiste un modo meno basso per coltivare quello che comunque rimane un approccio individualistico. Si può fare l'insegnante e magari arrivare a farlo anche in modo apparentemente ineccepibile, ma con il solo scopo di legittimare se stessi. Questo succede ogni volta che la Scuola e il suo ambiente diventano il luogo della propria affermazione professionale ed esistenziale fine a se stessa, il luogo dove ciò che conta sia l’approvazione, o dove anche la classe e l’attività didattica diventi un modo per dire «io faccio, io sono». Di gran lunga migliore del docente che pensa solo al proprio basso comodo, è però rischioso colui che vede negli alunni o gli ingranaggi di una sorta di progettificio didattico, che dimentica il peso della relazione anche a fronte di una efficienza inappuntabile, o in altro modo pensa che sia il fascino romantico esercitato su di essi a dare ragione del proprio essere in cattedra. Esistono questi insegnanti, per certi versi in modo anche funzionale al contesto, ma con il peso di un interesse che possa diventare dannoso. Perché è facile farsi ammaliare dall’approvazione del proprio operato fine a se stesso, perché è semplice rimuovere in tal senso la natura intimamente comunitaria dell’insegnamento, perché anche a un livello più emozionale è facile proiettarsi novelli Keating in piedi sui banchi a cercare il plauso dei ragazzi. Che sia l’idolo di un efficientismo produttivo o viceversa l’idolo di un riconoscimento emozionale, ancora più pericoloso perché agito sulla parte esposta dei ragazzi, si può essere insegnanti solo per legittimare se stessi. Il secondo modo per essere insegnante è dunque farlo per l’altro ma per sé, e può essere davvero un mestiere rischioso, ancheper chi lo fa.

Terzo

Un terzo modo per essere insegnante è quello di farlo per l’altro e solo per l’altro. Apparentemente sembrerebbe l’insegnante modello e in effetti per alcuni lo è: si tratta di quei docenti che si immolano letteralmente per la Scuola e gli alunni e spesso e volentieri sono quelli che riescono a tenere in piedi l’istituzione. Eppure anche questo modo di pensare l’insegnamento al limite dell’oblazione, nasconde seri rischi. Perché spesso si tratta di un investimento emotivo del tutto incontrollato e assolutamente permeabile ai propri vissuti personali, perché si incardina su una presa in carico che a volte perde di lucidità, perché alla lunga disidrata letteralmente le riserve umane e intellettuali di chi incarna questa modalità. L’insegnamento, come tutti i mestieri, usando un termine improprio, vocazionali può rischiare di annullare la propria personalità all’interno della funzione che si svolge. Si possono creare dei veri e propri cortocircuiti esistenziali per cui, per quanto nobile possa sembrare, chi fa l’insegnante sia portato a pensare che si possa esistere solo in quanto insegnanti. Il discorso non è ozioso se si pensa a quanto spesso vengano meno i confini lucidi su ciò che un insegnante possa e non possa fare per uno studente, su quanto a volte consumarsi acriticamente dal punto di vista emotivo porti facilmente al burn-out, a quanto soprattutto il primo magistero dell’insegnante sia quello di consegnare ai ragazzi una visione adulta ed equilibrata della gestione dei rapporti personali. E quanti insegnanti magari incredibilmente motivati e motivanti abbiamo visto consumarsi fino ad esaurirsi negli anni, fino addirittura a rigettare quella professione che sembrava fosse l’unica a dare un senso alla propria esistenza, a fronte di una delle tante piccole delusioni educative di cui la Scuola è continua dispensatrice. Essenziale è il capire dove inizi la nostra funzione e dove finisca. Il terzo modo per essere insegnante è perciò farlo per l’altro e solo per l’altro, e può essere davvero un mestiere pericoloso, anche per chi lo fa.

Quarto

Un quarto e ultimo modo per essere insegnante è quello di farlo per sé per farlo per l’altro. Per dirlo con parole ancor più semplici (e seminare un ulteriore indizio sull’antica fonte) l’unico modo per volere veramente bene a qualcun altro è quello di volersi anzitutto bene. Traslato, un insegnante potrà davvero rendere giustizia alla propria funzione, partendo dalla cura positiva di se stesso, con il fine consapevole di far transitare positivamente questa cura sull’altro. E i modi giusti per volersi bene non dovrebbero essere troppo oscuri se si parte dall’analisi di quale funzione, ben più del ruolo, si è chiamati ad esercitare. Essere onesti, corretti, preparati significherà stare bene in un luogo che chiede onestà, correttezza, preparazione. Curare attraverso una curiosità mai sopita la propria voglia di conoscenza significherà far transitare con soddisfazione la stessa voglia di conoscere e di aprirsi al mondo. Cercare con volontà bellezza, equilibrio, armonia in un verso, in uno snodo storico, in un’equazione, significherà insegnare senza troppa inerzia la stessa bellezza, lo stesso equilibrio, la stessa armonia a chi detiene per stato naturale in potenza lo stesso desiderio. È stata proprio questa la conclusione cui siamo giunti quella mattina io e il mio collega più anziano: l’unico modo per essere veramente un buon insegnante dovrebbe essere quello di tenere come prezioso il proprio essere, per potere essere preziosi per gli altri. La generosità verso noi stessi, la cura verso le nostre capacità, l’amore attraverso lo studio per il nostro sapere, non potrebbero mai lasciare spazio né al basso egoismo, tanto meno all’egolatria, men che meno all’onnipotenza dei salvatori. Essere autenticamente donne e uomini ancor prima che insegnanti e darsi animo perché il nostro essere insegnati si innesti anzitutto su un’umanità, un sapere, un trasmettere curati e custoditi: a questo ci è sembrato di convenire insieme, io e il mio collega più anziano, alla fine di quella chiacchierata di un’ora vuota. Il quarto modo per essere insegnante è infine farlo per sé per farlo per l’altro, e può essere davvero un mestiere bello, anche per chi lo fa.

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