«Premio all’impegno. Serve alla scuola e fa bene al Paese»
Di Mariagrazia Gerina
Priorità, norme per bandire i concorsi universitari. Il provvedimento sul merito che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo intende portare domani in Consiglio dei ministri è ancora un work-in-progress. Molte cose stanno cambiando. Anche il titolo: «Misure per la valorizzazione dei capaci, dei meritevoli e della responsabilità educativa e sociale nei settori dell’istruzione, dell’università e dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica».
Ministro Francesco Profumo, lei ha preparato una riforma per promuovere il merito nella scuola e nell’università, che ha già raccolto molte critiche, prima ancora di approdare in Consiglio dei ministri. Intende andare avanti?E come?Pensa ancora di procedere attraverso un decreto? «Io credo molto negli organi collegiali. Presenterò mercoledì in Consiglio dei ministri un progetto complessivo: la forma e i dettagli del provvedimento dovranno essere decisi in quella sede».
Quale è l’urgenza di adottare un provvedimento sul merito? «In questi mesi abbiamo fatto cose utili per la parte più debole del Paese, in termini di lotta alla dispersione scolastica e di diritto allo studio. Contemporaneamente però dobbiamo confrontarci con il mercato europeo. Nell’ultimo concorso bandito dal Consiglio delle ricerca francese, il 40% dei vincitori sono italiani. Quindi siamo bravi, però dobbiamo diventare davvero un Paese europeo. La commissaria Quinn che ha incontrato anche il presidente della Repubblica e il presidente Monti ha evidenziato quattro elementi di debolezza del Paese dal punto di vista dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Uno riguarda la “speranza”: se pensiamo ai nostri concorsi universitari è difficile per un candidato che viene da un altro Paese avere le stesse chance di un candidato italiano. Il secondo è la “trasparenza”: i nostri bandi sono molto complicati, quasi sempre scritti soltanto in italiano. Il quarto sono i tempi: i nostri sono troppo lunghi. Il terzo è appunto il merito».
Quello che ci porta fuori dalle medie europee però sono i dati sulla dispersione scolastica, le iscrizioni alle università in calodel10%,le borse di studio che l’Italia garantisce a un numero ancora molto ristretto di studenti. Secondo il Pd e i sindacati queste dovrebbero essere le priorità. «Per essere più chiari, credo che sia necessario partire dai numeri. Abbiamo messo a disposizione della lotta alla dispersione scolastica oltre un miliardo. Le risorse investite per promuovere il merito saranno circa 30 milioni. Qual è la priorità per il governo mi sembra evidente. La dispersione scolastica è la nostra prima preoccupazione, tanto più che registriamo un incremento nelle aree di maggiore povertà. Non solo in Italia la dispersione è più forte che in altri Paesi ma è anche più concentrata in certe aree, al Sud e nelle periferie delle grandi città. Per questo l’azione messa in atto dal governo con i fondi per la coesione richiede una progettazione di dettaglio, sulla quale stiamo già lavorando e che non può passare attraverso un provvedimento legislativo. Quanto al diritto allo studio abbiamo incrementato le risorse statali dai 110 milioni dello scorso anno a 150 e, grazie a un accordo politico, le Regioni aggiungeranno un altro 40%. In tutto, con le tasse, che rispetteranno un criterio di progressività rispetto al reddito, si arriverà a 360 milioni: significano circa 70mila borse. Potremmo fare molto di più? Certo. E lo dovremo fare ragionando, in termini più complessivi, di welfare dello studente: non solo borse di studio, ma servizi offerti da Comuni e Regioni, borse part-time messe a disposizione dalle università e anche un certo numero di prestiti d’onore. Ma quello che mi preme sottolineare è che il nostro è un progetto complessivo. L’obiettivo è avere un Paese migliore. E per questo è giusto alzare ancora l’asticella. Proseguendo sul doppio binario: da una parte promuovere l’equità, dall’altra valorizzare la capacità e l’impegno. Credo che questo non sia né di sinistra, né di destra».
La sua riforma ha scatenato molte reazioni anche solo a partire dal titolo del provvedimento: il merito... «Il titolo abbiamo deciso di modificarlo. Per avere un linguaggio più corrispondente alle aspettative. Lo abbiamo intitolato: “Misure per la valorizzazione dei capaci, dei meritevoli e della responsabilità educativa e sociale nei settori dell’istruzione, dell’università e dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica”».
Nella sostanza cosa cambia? «In questa settimana abbiamo fatto un lavoro molto accurato in modo da avere una condivisione complessiva».
A giudicare dalle critiche giunte sia dal Pd che dai sindacati non l’avete ancora raggiunta. «Abbiamo avuto alcuni incontri con i parlamentari e con loro abbiamo messo sul tavolo alcune delle idee. Dopodiché l’articolato su cui si sono appuntate le critiche non so da dove sia uscito. Io credo che si debba ragionare e giudicare sulla base di cose certe e non di ipotesi fluttuanti».
Ma molte delle contestazioni riguardano proprio il senso complessivo e l’aspetto simbolico di certi provvedimenti: davvero eleggere uno “studente dell’anno” serve a migliorare la scuola nel suo complesso? «Venerdì pomeriggio sono stato al Quirinale. Il presidente della Repubblica ha premiato alcuni ragazzi che hanno meno di diciotto anni. Il premio gli è stato attribuito per le loro capacità, il loro impegno nella scuola, nella creatività, nel sociale: non erano semplicemente i più bravi, alcuni di loro erano più deboli ma si erano impegnati molto. È questa l’idea che ho del merito e della società. Siamo diversi, ma poi ciascuno ci mette la sua dedizione e questo va incoraggiato. Promuovere i più bravi aiuta la scuola nel suo complesso, se i bravi non sono bravi solo per se stessi ma anche per la società. Vogliamo un Paese trainato dai migliori».
Ma così non si fanno diventare più bravi solo quelli che già hanno gli strumenti? «Nel mondo anglosassone in realtà esistono due tipi di merito. C’è l’impegno che permette di migliorare rispetto al punto di partenza e quello che consente di raggiungere gli obiettivi oggettivamente più elevati. Il Paese ha bisogno di entrambi».
A parte lo studente dell’anno, le master class estive,le olimpiadi scolastiche,una parte corposa del provvedimento che si accinge a portare in Consiglio dei ministri riguarda l’università. Qui l’urgenza è più chiara. I giovani ricercatori sanno bene che è tutto bloccato, da tempo. Come pensate di far ripartire concorsi e assunzioni? «Come ci ha detto la commissaria europea, un fattore decisivo è il tempo. Noi dobbiamo dire ai giovani ricercatori quali saranno le prossime scadenze per dare loro delle opportunità. Presenteremo un piano quadriennale, in due tempi. I primi concorsi partiranno già questa estate».
Ma l’abilitazione nazionale per accedere alla docenza universitaria, prevista dalla riforma Gelmini, ci sarà o sarà abolita? «L’abilitazione c’è. In un primo tempo, procederemo con due bandi per individuare le commissioni nazionali e poi con quattro bandi per i candidati. Ovviamente, dobbiamo fare bandi più semplici, in lingua inglese e che consentano la partecipazione anche a chi è al di fuori del nostro sistema. In questo modo anche una parte di giovani capaci potranno partecipare all’abilitazione anche se non hanno una posizione acquisita. Il merito, appunto, sta nel fatto che i candidati saranno valutati in base ai risultati ottenuti con la ricerca ». Se state mettendo a punto nuove norme che riguardano il reclutamento significa che quelle fissate nella Gelmini non funzionano? «Sull’università ci sono due problemi che ci preoccupano. Dobbiamo evitare di avere un listone unico in cui ci sono tutti gli idonei in tutti i settori disciplinari, perché altrimenti il rischio è che si scateni un contenzioso che finisca per bloccare tutto. L’altro problema riguarda gli abilitati: dobbiamo fare in modo che siano assunti, non possiamo creare aspettative che verranno poi deluse ».
Sta pensando a una abilitazione con un numero chiuso? «No, a tutti va data l’opportunità di una chance ma con delle cadenze che dovremo fissare in base alle esigenze delle università».
Ma basteranno nuove norme per il reclutamento a sbloccare le assunzioni, quando i limiti di spesa a cui le università si devono attenere hanno di fatto introdotto restrizioni forti rispetto al turn over? «C’è un piano straordinario per gli associati, per cui sono state stanziate risorse importanti: 76 milioni lo scorso anno, 90 milioni per l’anno 2013-14, poi le università hanno le loro disponibilità. Io credo che con una continuità di programmazione il sistema possa ripartire ».
Quanti giovani ricercatori precari ce la faranno a entrare? Vi siete dati degli obiettivi numerici? «La legge che regola tutto è la domanda che proviene dagli atenei: molti docenti stanno andando in pensione e dovranno essere sostituiti».
Ma le regole che vi state dando riusciranno a produrre il ricambio generazionale di cui c’è bisogno? «Quello è il nostro intento».