Povera istruzione, l’Italia tra i paesi che spendono meno
IL RAPPORTO Uno sguardo sull’educazione 2019 pubblicato ieri dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dimostra che serviranno investimenti miliardari per rispettare le promesse di Conte e recuperare i tagli sanguinosi a scuola e università realizzati dal governo Berlusconi tra il 2008 e il 2011 e mai più rifinanziati
Giansandro Merli
«Sono contento mi sia stato riconosciuto che questo programma rimarca molto l’importanza di investire in scuola e ricerca: nostro obiettivo non è tanto investire di più, ma meglio», ha detto ieri il premier Giuseppe Conte nella replica al Senato. Il tema della formazione era stato al centro anche del discorso alla Camera, tenuto il giorno precedente. Lì il primo ministro aveva annunciato la volontà di rendere gratuiti gli asili nido, aumentarne i posti al Sud, contrastare il precariato e alzare gli stipendi degli insegnanti seguendo le indicazioni Ue.
IL RAPPORTO Uno sguardo sull’educazione 2019 pubblicato ieri dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dimostra che serviranno investimenti miliardari per rispettare le promesse di Conte e recuperare i tagli sanguinosi a scuola e università realizzati dal governo Berlusconi tra il 2008 e il 2011 e mai più rifinanziati. Di conseguenza l’Italia spende oggi per l’istruzione pubblica il 3,6% del suo Pil, l’1,4% in meno della media Ocse (circa il 5%). È uno dei livelli più bassi tra i 36 membri dell’organizzazione. Di questi, Messico e Turchia sono classificati dalla Banca mondiale come Stati a economia con Pil pro capite medio-alto, mentre gli altri ad alto livello di Pil.
L’URGENZA DI RIFINANZIARE il settore è nota anche al neo ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti. Appena nominato il grillino, che sostituisce Marco Bussetti (quota Lega) di cui era vice nel precedente governo, ha chiesto di inserire nella prossima legge di bilancio 2 miliardi per la scuola e 1 per l’università. In caso contrario, minaccia rapide dimissioni. Per il momento la sortita non ha prodotto particolari reazioni nella compagine governativa. Se questi soldi arrivassero davvero costituirebbero una netta inversione di tendenza rispetto alle politiche degli ultimi anni. Comunque, non compenserebbero gli otto miliardi di tagli realizzati dieci anni fa da Berlusconi.
DAL LATO DEGLI INSEGNANTI la fotografia della scuola italiana colpisce per due aspetti: è donna, è anziana. Il 78% del corpo docente, infatti, è di sesso femminile. Contemporaneamente, i prof ultra 50enni segnano il record tra i paesi Ocse, nonostante la percentuale sia diminuita negli ultimi anni nella scuola primaria e in quella secondaria, passando dal 64% del 2015 al 59% del 2017. In ogni caso, l’Italia dovrà sostituire circa la metà dei suoi docenti nei prossimi dieci anni.
LA NOTIZIA potrebbe far ben sperare i precari della scuola, che di anno in anno aumentano in termini assoluti e relativi. Ormai il 20% del corpo docente è composto da precari. Secondo i sindacati, da questo settembre al prossimo giugno le supplenze potrebbero arrivare a 170mila e sfiorare il record di 200mila nell’anno scolastico 2020-2021 se, come pare, non verrà approvato il decreto «Salva precari», che per la scuola conteneva 53.627 nuove assunzioni, e i concorsi slitteranno ancora. Altra questione calda è l’insegnamento di sostegno: al nord la carenza di questi docenti è ormai una vera e propria emergenza, ma in forme più lievi il problema investe tutto il sistema scolastico.
NEL FRATTEMPO GLI STUDENTI di scuole e università italiane sono diminuiti e diminuiranno ancora. Tra il 2010 e il 2016, dell’1% nell’istruzione primaria e secondaria e di ben l’8% in quella terziaria. La tendenza negativa (e allarmante) dovrebbe continuare anche nei prossimi dieci anni, quando, secondo le stime, si perderanno un milione di studenti. Nonostante questa fuga dalle università, il numero dei laureati in termini assoluti sta crescendo. In rapporto percentuale alla popolazione, però, rimane ben al di sotto della media Ocse: 19% contro 37%. La laurea, del resto, rende meno che nella maggior parte degli altri paesi avanzati: stipendi e tassi di occupazione dei laureati italiani restano sotto i valori medi. Soprattutto per le donne: guadagnano il 30% in meno dei colleghi uomini (media Ocse -25%).
I GIOVANI, COMUNQUE, non abbandonano soltanto i percorsi educativi: lasciano il paese. Secondo i dati Istat, negli ultimi dieci anni ne sono andati via un milione. Al primo gennaio 2019 c’erano 12,5 milioni di ragazze e ragazzi tra i 15 e i 34 anni (20,7% della popolazione). Nel 2009 erano 13,6 milioni (22,9%). Chi resta, segnala l’Ocse, ha difficoltà di tutti i tipi: tra i paesi membri l’Italia è terza, dopo Grecia e Turchia, per numero di giovani tra 18 e 24 anni che non lavorano, non studiano e non frequentano un corso di formazione. Si tratta dei cosiddetti Neet. Sono il 26% contro il 14% della media. L’Italia, a partire dalla scuola, non è un paese per giovani. Soprattutto dopo quasi 10 anni di politiche neoliberali all’insegna dell’austerity.