“Politecnico in inglese? Un esempio da seguire”
Il ministro Profumo: per gli italiani maggiori occasioni
ANDREA ROSSI
Non sarà una pratica da estendere a tutto il sistema universitario. Ma nemmeno una fuga in avanti. Piuttosto, deve diventare un’abitudine «in alcuni atenei di prestigio e in alcuni settori». Di sicuro il ministro dell’Università Francesco Profumo è convinto che la decisione del Politecnico di Milano - dal 2014 solo corsi in inglese per il biennio specialistico - segni una svolta: «Poco alla volta diventeremo un Paese normale».
Perché normale?
«Perché finora il fattore linguistico ha rappresentato una barriera: per i nostri studenti, in difficoltà nel competere con i loro coetanei stranieri; e per gli stranieri».
Per quale motivo?
«L’italiano penalizza la nostra capacità di attrarre studenti dall’estero. Chi viene a studiare in Italia deve imparare la nostra lingua, perché dovrà essere un nostro ambasciatore nel paese d’origine. Però non credo debba farlo necessariamente in aula».
Altri atenei seguiranno Politecnico di Milano?
«Sarebbe auspicabile. Però deve essere un processo guidato. E andare di pari passo con un’opera di promozione internazionale del sistema Italia, che coinvolga anche il sistema delle imprese. E con un portale che raggruppi tutte le università e di ciascuna mostri servizi e opportunità: quali corsi offrono, in che lingua, con quante borse di studio e possibilità di tirocinio. Introdurremo i test d’ingresso in inglese per ingegneria, medicina, economia e architettura. E abbiamo firmato un accordo con le questure per il rilascio dei documenti necessari. Tutto per attrarre più stranieri».
Gli italiani, invece, scontano davvero un gap di competitività dovuto alla lingua?
«Sì. Un background linguistico di alto livello è un’opportunità per avere maggiori possibilità di trovare lavoro sia all’estero sia nelle multinazionali che hanno sedi in Italia. Senza contare che così le nostre università potranno competere ancor di più con i migliori atenei europei».
Qualcuno potrebbe essere scoraggiato da un’esperienza di studio all’estero?
«Non credo. E non sottovaluterei il valore di ricreare un ambiente simile a quello che si potrebbe trovare in una grande università straniera. In tempi di crisi non è aspetto di poco conto, per chi non ha certe possibilità economiche».
Sbaglia chi teme una sorta di discriminazione alla rovescia per gli italiani?
«Sì. In alcune discipline tecniche e scientifiche l’inglese è la lingua di riferimento. E questa novità non dovrà essere introdotta in tutte le università. Più che un ostacolo, a me sembra un’opportunità per il nostro sistema scolastico di migliorare, mescolando il sangue, costruendo nuovi rapporti tra studenti, e tra studenti e professori».
Verrà intensificato lo studio delle lingue straniere anche a scuola?
«Chi si iscrive ad alcune facoltà deve già possedere solide proprietà linguistiche. Non può essere l’università a farsene carico, se non in fase transitoria. Bisogna cominciare prima».