Più scuola uguale più futuro È l'istruzione che ci renderà ricchi
L'istruzione serve. Economicamente, ma non solo. Serve per un benessere più ampio e per la democrazia. Studiare significa disporre di più strumenti per comprendere la realtà, evitare le trappole di chi propaga bufale, essere cittadini partecipi e non servi, integrarsi se si arriva da altri Paesi.
PIERO MARTIN
università di padova
C'è un ragazzino che avrebbe voluto iniziare l'anno scolastico. Per lui, che veniva dal Mali, sarebbe stato il quarto in Italia, se non fosse morto il 18 aprile 2015, quando un barcone affondò nel Mediterraneo, portando con sé quasi mille persone.
Come racconta Cristina Cattaneo nel suo prezioso libro «Naufraghi senza volto» (Raffaello Cortina Editore), quel ragazzino portava cucito nella giacca quello che sperava potesse essere il passaporto per una vita migliore: la sua pagella scolastica. Speriamo invece che torni in classe il bambino che a luglio, portando con sé una pila di libri, ha lasciato la casa di Roma, dalla quale la sua famiglia era stata sgomberata. E con lui anche la diciottenne somala salvata dalla nave «Open Arms», che ha raccontato ai giornalisti il suo sogno: proseguire gli studi.
Tre icone drammatiche di una saggezza antica che vede nello studio uno strumento di riscatto sociale, una speranza anche nei momenti più bui. Una saggezza che la nostra storia recente conosce bene e che è addirittura scritta nella Costituzione, ma che oggi stiamo perdendo. Con costi sociali ed economici enormi.
La spesa pubblica
Il fascismo - che non per caso nei suoi censimenti elimina le domande sulle capacità di lettura e scrittura - lascia un'Italia con oltre il 59% di persone prive della licenza elementare. Il tema dell'istruzione si afferma già nella Costituente, dove i relatori degli articoli 33 e 34 della nostra Carta furono due figure del calibro di Concetto Marchesi - che pochi anni prima in un famoso appello aveva invitato gli studenti dell'Università di Padova all'insurrezione contro il nazi-fascismo - e Aldo Moro. In quegli anni Piero Calamandrei pensava la scuola come organo costituzionale, affermando che «non si ha vera democrazia là dove l'accesso all'istruzione non è garantito in misura pari a tutti» (val la pena rileggere i suoi discorsi nel libro «Per la scuola», Sellerio). E nascono molteplici esperienze sul campo, come la scuola di Barbiana e i collegi - come il Mazza di Padova - che promuoveranno l'accesso all'università dei meno abbienti.
E oggi? Siamo ancora convinti che valga la pena portare in braccio i libri per un futuro migliore? Partiamo dai dati. La percentuale della spesa pubblica per l'istruzione, che negli Anni 60-primi 70 aveva raggiunto picchi tra il 18-19% è calata fino a circa l'attuale 7,9%. Per Eurostat, nel 2017, l'Italia ha speso il 3,8% del suo Pil per l'istruzione (per il 2019 la previsione è del 3.5%), contro una media europea del 4,6%. Peggio di noi fanno solo Bulgaria, Irlanda e Romania. E i risultati si vedono.
Secondo il rapporto Istat sul «Benessere equo e sostenibile 2018», le percentuali di diplomati e laureati in Italia sono del 60,9 e 26,9%, da paragonarsi con i valori medi europei rispettivamente pari al 77,5 e al 39,9%. Impietoso anche il confronto sulle percentuali di coloro che escono precocemente dal sistema di istruzione: 14% da noi e 10.6% in Europa. Allarmi confermati anche dai dati 2018 di Eurostat che con il 28,9% ci assegna il triste record europeo per la percentuale di giovani che né lavorano né studiano (i «Neet»): la media europea è del 16,5%).
Dietro i dati ci sono conseguenze concrete? Dopotutto siamo spesso esposti ad una narrazione che instilla una continua svalutazione dell'istruzione, della fatica dell'apprendistato, del sapere dei maestri. Spesso sostituiti da un generico «buon senso» - o meglio, per dirla col Manzoni, senso comune - antagonista della competenza delle presunte élite e dispensato in versione 2.0 da quell'immensa fabbrica di luoghi comuni che può essere la rete.
L'allarme dell'Istat
Le conseguenze ci sono e a pagare il conto sono i più deboli. Sempre l'Istat, nel rapporto del 2017, afferma che «un livello di istruzione più alto del principale percettore di reddito della famiglia risulta sistematicamente associato a una collocazione nella parte alta della distribuzione dei redditi e, quindi, a migliori condizioni economiche». E ancora l'Istat ci dice che il tasso di abbandono scolastico è del 2,7% per i figli dei laureati e del 27,3% (10 volte di più!) per i figli di chi ha la scuola dell'obbligo. Secondo l'Ocse, un giovane i cui genitori sono laureati ha una probabilità di laurearsi 4,5 volte maggiore rispetto a un compagno che abbia i genitori che hanno frequentato solo la scuola dell'obbligo. In Italia il divario è ancora maggiore: la probabilità per i figli dei laureati è 9,5 volte più grande.
L'istruzione serve. Economicamente, ma non solo. Serve per un benessere più ampio e per la democrazia. Studiare significa disporre di più strumenti per comprendere la realtà, evitare le trappole di chi propaga bufale, essere cittadini partecipi e non servi, integrarsi se si arriva da altri Paesi. Non dare valore alla scuola non solo è economicamente perdente, ma è profondamente classista e reazionario, perché si toglie ai più deboli uno strumento fondamentale di emancipazione e integrazione e perpetua situazioni di disuguaglianza e discriminazione. «La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Settantun anni dopo c'è ancora molto da fare per mettere in pratica quest'articolo della Costituzione. Proviamoci. E buon anno scolastico a tutti!