Più innovazione in Parlamento
Fuori dalle Aule l’Italia ha fior di professionisti abituati a confrontarsi con il mondo nell’ambito del sapere alto Mentre dentro tutto ciò pare non esistere
Elena Cattaneo
NONOSTANTE i freni cui cultura, innovazione, scienza e medicina sono da sempre sottoposti nel nostro paese, l’Italia dispone di competenze scientifiche, umanistiche, tecnologiche e imprenditoriali, abituate a sfide e a vittorie mondiali, dimostrando così che ci siamo anche noi. Eccome. Tuttavia nei campi più diversi ci si è trovati spesso di fronte a soluzioni legislative che hanno dato l’idea di “farsi un baffo” di queste raggiunte competenze, così come dell’esame delle fonti e dei fatti controllati. Il risultato è stato che in troppe occasioni non si è riusciti a cogliere al massimo le opportunità di sviluppo economico e i miglioramenti sociali che scienze e tecnologie e la cultura in generale potevano offrire. In quelle occasioni a perderne è stata anche la crescita civile della nazione, dei suoi cittadini, mal allenati al pensiero critico da pratiche comunicative populiste e demagogiche. Cittadini ai quali non si spiega cosa siano gli ogm (anzi, si vieta persino di studiarli… per poi importarli dall’estero); che la diagnosi pre-impianto è una conquista medica e sociale; che Stamina è l’anti-compassione; che il metodo Di Bella — sul quale ora alcune Regioni pare investiranno (non è il caso che il Governo controlli?) — non è medicina; che la sperimentazione animale è inevitabile; che i vaccini non causano l’autismo e che i terremoti non si prevedono ma che il territorio può essere difeso salvando vite e denaro.
Insomma, fuori dalle aule legislative l’Italia ha fior di professionisti abituati a confrontarsi con il mondo intero in ambiti del sapere ad alto tasso d’innovazione, quelli sui quali le grandi economie basano il loro futuro, mentre dentro tutto ciò sembra “non esistere”. Sia chiaro, non è un’accusa dire che un politico non sappia abbastanza di staminali, geologia, pensiero probabilistico o di tecnologie della comunicazione. Ma informarsi e capire questi temi significa dovervisi dedicare quasi esclusivamente — e pochi politici sono in grado, lasciati soli, di farlo — per capire e poi votare. Non è quindi automatico che le grandi conquiste della scienza, della medicina o degli studi sull’ambiente si trasformino in un vantaggio per il Paese, sebbene lo siano per la singola disciplina o il singolo centro di ricerca (che dovrebbero ancora di più sostenere l’avvicinamento, anche attraverso una rinnovata etica interna). Ecco perché penso sia importante considerare la pos-
sibilità che il nuovo Senato sia composto anche da figure d’eccellenza negli specifici settori.
La discussione sulla riforma del Senato è stata sinora improntata (e comunicata) prevalentemente sul “tagliare i costi della politica”, tesa ad intercettare pulsioni popolari accese dai malfunzionamenti causati in passato da incompetenti collocati nel posto sbagliato. Ma questa istituzione secolare è un’altra cosa e va difesa. Riorganizzata, certamente, ma non svuotata. Competenze e capacità politica insieme possono aprire al Paese occasioni più alte di socializzazione delle opportunità che la cultura, largamente intesa, può offrire. Senatori “specialisti” possono fornire visioni strategiche sul futuro in settori complessi e in rapida evoluzione, fare da “sentinella” sulle scelte del presente, partecipare alla elaborazione delle leggi, controllare gli effetti delle stesse e proporre eventuali adattamenti. Fare leggi è uno dei compiti più importanti ma anche più rischiosi per una nazione. I padri costituenti ci hanno lasciato una Costituzione molto attenta al bilanciamento tra poteri dello Stato, congegnando un processo legislativo molto articolato. Oggi serve maggior “agilità” decisionale ma non minori garanzie. Questo va raggiunto senza stravolgere i fondamenti del nostro sistema e, stante la necessità di superare il bicameralismo paritario — ad esempio non votando la fiducia al Governo — l’obiettivo dovrebbe essere prima di tutto l’efficacia istituzionale, che si otterrebbe ridistribuendo i compiti e garantendo la capacità di assolverli al meglio. Un Senato che includa competenze e “allenatori” del pensiero critico in campi d’avanguardia saprebbe vagliare e migliorare le leggi necessarie per governare la convivenza civile. Nel passato gli italiani hanno avuto l’orgoglio di vedere, nei ranghi del Senato, la presenza di personalità con altissime qualificazioni, che hanno agito con disinteressato impegno civile,
mossi da un’etica di responsabilità sociale, “senza vincolo di mandato”, unito alle competenze scientifiche e tecnologiche dei loro tempi. E si trattava di momenti lontani dalle straordinarie complessità e conquiste di oggi. Credo che il nuovo Senato debba essere pensato e organizzato anche con questo fine.
Per questo vorrei richiamare l’attenzione sulla opportunità di vedere la presenza di 21 senatori, rivendicata solo ieri dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso dell'assemblea con i senatori del Pd, che si siano distinti per aver «illustrato il Paese per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Senza banalizzazione e senza aut aut, neppure sul loro numero, ma riflettendo sulle ragioni della proposta. Immaginandoli, cioè, come il frutto dello sforzo di sottrarre una parte della futura Camera Alta alla fisiologica spartizione politica dei seggi senatoriali, per innestare stabilmente nel circuito delle decisioni parlamentari lo spazio per un apporto di esperienze d'eccellenza conoscitiva riconosciuta, oggi poco presente. In altre parole queste figure sarebbero di aiuto alla politica nello scongiurare errori clamorosi come alcuni recenti e nell'affrontare visioni sul futuro. Se vi fosse accordo sull’obiettivo, sono sicura che i nostri eccellenti costituzionalisti e esperti della materia saprebbero individuare un meccanismo di “nomina o elezione” funzionale a realizzare l'aspettativa comune.
Mi sono sempre occupata di scienza, che ha un metodo infallibile per separare il vero dal falso, qui e ora, o meglio il confutabile dall’inesistente, le scienze dalle pseudoscienze e dalle ciarlatanerie. Si chiama sperimentazione. Mi piace poter pensare e sperare che il metodo per affrontare le riforme si rifaccia a questo principio, che peraltro ispirò i grandi filosofi della democrazia vissuti nel Seicento o nel Settecento, quando libertà ed eguaglianza erano ancora solo delle aspirazioni. E mi piacerebbe, soprattutto, che quando questo processo di riforma sarà compiuto, gli italiani possano dire: questa legge l’ha esaminata il Senato, mi fido perché è stata pensata o controllata per me anche da competenti disinteressati. Spero che si possa fare.