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Per una democrazia della conoscenza: riflessioni e proposte sull’università a partire dalla crisi pandemica

Mentre pubblicamente si proclama la funzione salvifica della scienza nei confronti della pandemia, nulla cambia per chi la scienza la costruisce quotidianamente

13/05/2020
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ROARS

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L’opinione pubblica italiana, ma non solo, nelle ultime settimane ha manifestato riconoscenza, gratitudine e apprezzamento per le persone impegnate professionalmente nella risposta sanitaria a Covid-19, spesso identificate come “medici e infermieri”. Stante l’enorme e spesso doloroso contributo di queste persone impegnate nella cura e nell’assistenza clinica, donne e uomini, questa pandemia sta coinvolgendo molte altre figure sanitarie, nella prevenzione, nella diagnostica, nelle funzioni ausiliarie o nella ricerca di vaccini, test diagnostici, nuove terapie.

Altrettante però sono le persone impegnate in altre attività e discipline, nel lavoro e nella ricerca politica, sociale, giuridica, economica, ambientale, della comunicazione: soggetti con cui è necessario costruire un confronto, scevro di gerarchie e pregiudizi, per comporre un quadro complessivo di risposte ai bisogni complessi della società. In questa fase di crisi, più che mai. Il processo della costruzione di un confronto, oggi visibilmente inceppato, è virtuoso nella misura in cui è collettivo, il linguaggio è comune, la cultura è popolare, la conoscenza democratica, e deve costituire il nostro orizzonte di riferimento. È necessario coinvolgere tutte le cittadine e i cittadini, a partire dalla comprensione del fenomeno (anche nelle sue dimensioni più diversificate), dall’espressione dei bisogni stessi, dalla critica costruttiva delle politiche attuate, fino all’adesione consapevole alle misure di controllo della pandemia.

L’università e le istituzioni della ricerca pubblica sono centrali in questa prospettiva, avendo un importante ruolo democratico di diffusione e produzione culturale. A partire dagli ambiti in cui noi stessi lavoriamo, in questo articolo tentiamo di descrivere l’impatto della pandemia e cosa stiamo imparando in questi giorni, per contribuire a costruire soluzioni concrete ai problemi emersi. Infatti la pandemia sta funzionando da lente di ingrandimento per una serie di problemi causati dalle politiche adottate negli anni. In particolare, vogliamo evidenziare che [attenzione, spoiler!] il grande sforzo collettivo richiesto ai ricercatori avviene nonostante la vocazione pubblica dell’università e della ricerca sia, nella pratica, sempre più limitata dai meccanismi di precarizzazione e frammentazione della didattica e della ricerca.

La conoscenza è un ingranaggio collettivo

La ricerca e il suo funzionamento sono stati immediatamente sconvolti dalla pandemia nelle loro dinamiche sociali (1). Da quando è iniziata l’emergenza, larga parte dei gruppi di ricerca in ambito di malattie infettive, virologia, epidemiologia, farmacologia, ha concentrato le proprie ricerche su questo fenomeno, e sono in parte venuti meno i normali processi di auto-regolazione della comunità scientifica. Le riviste scientifiche permettono l’accesso libero e gratuito agli articoli riguardanti Covid-19 e le ricerche procedono a ritmi sostenutissimi. Ne risulta una produzione scientifica imponente e accelerata al fine di fornire risposte rapide all’emergenza.

Accanto al cambiamento nella prassi in questo ambito specifico di ricerca, si è assistito ad un generale riorientamento di studiosi solitamente impegnati in altri ambiti, i quali hanno tentato di dare il loro contributo attraverso strumenti inediti, compiendo uno sforzo comunicativo senza precedenti diretto sia verso l’interno della comunità scientifica, che verso il pubblico esterno.

D’improvviso la comunità scientifica ha riscoperto il senso di essere una comunità, dopo anni di retorica competitiva e lotte forsennate per l’accesso alle poche risorse disponibili.

La mutazione coinvolge anche il modo in cui si pubblica: molti degli articoli su Covid-19 hanno come oggetto piccole indagini su campioni ridotti o osservazioni brevi, ma resi subito disponibili per la comunità scientifica (anche bypassando il normale processo di valutazione, attraverso i preprint). Le conclusioni cui si giunge sono sicuramente parziali, sottoposte a verifiche ed eventuali smentite. E il dibattito vede la presenza di posizioni diverse tra esperti dello stesso ambito di ricerca.

Se, da un lato, questa vivacità del dibattito rischia di disorientare l’opinione pubblica, essa segnala dall’altro quella che è la realtà del procedimento scientifico. La scienza non ha hic et nunc tutte le risposte. Nessun singolo scienziato gode del monopolio della verità. E le conclusioni cui giunge la ricerca scientifica sono sempre derivanti dal confronto tra posizioni diverse e infine dal riscontro empirico.

In questo quadro emerge, quindi, l’importanza delle piccole ricerche – base fondamentale d’accumulazione di evidenze scientifiche, sulla quale vengono costruite le conclusioni di carattere generale – e dei piccoli gruppi di ricerca, spesso senza ingenti finanziamenti né visibilità, ma che costituiscono l’architettura minima che garantisce il funzionamento della comunità scientifica, i nodi che permettono lo scambio lungo una rete diffusa. Le ricerche a maggiore impatto si fondano infatti proprio su un’indicazione derivante dai dati diffusi a monte, su un’ampia bibliografia attinente a settori scientifici diversi, sulla disponibilità di tecniche e tecnologie sviluppate in precedenza. Le cosiddette eccellenze della ricerca sono un prodotto sociale dell’intera comunità scientifica.

Anche nel caso dell’emergenza in corso, senza questa produzione sociale di conoscenze, diffusa nel tempo e nello spazio, nessuna soluzione sarebbe possibile.

La didattica come scambio, critica e confronto

Dopo solo due o tre giorni dalla sospensione della didattica frontale in seguito all’emergenza, la grandissima parte dei corsi universitari è stata trasferita on-line, con un’efficienza accolta in termini più che positivi. A distanza di quasi due mesi, oltre ai disagi e alle diseguaglianze prodotti dalla didattica a distanza (DAD), che sono stati ben descritti (2,3,4), emergono anche tutti i limiti dell’efficacia di questo tipo di insegnamento.

Ogni docente è diverso, ha stili e metodi di insegnamento propri, ma il tratto che accomuna ogni buon docente è la passione e la capacità di suscitarla e condividerla con studentesse e studenti. L’elemento passionale difficilmente riesce a bucare lo schermo: l’insegnamento dematerializzato si presenta più come un prodotto finito che come uno scambio. Queste frustrazioni non sono nuove per chi insegna nelle università: l’inefficacia della didattica è un problema molto sentito per chi è titolare di numerosi corsi, ciascuno con un numero elevato di studenti e studentesse, in un processo di moltiplicazione sterile. Il definanziamento degli atenei ha infatti contribuito in modo significativo all’impoverimento della didattica, che da scambio e volano di crescita del metodo scientifico e del pensiero critico, troppo spesso si limita alla trasmissione di conoscenze. Per quanto di aiuto, l’innovazione tecnologica non è sufficiente a colmare questi vuoti, e la didattica a distanza rende questo fenomeno palese.

È invece necessario ripensare la didattica come un processo di scambio critico che coinvolga immediatamente gli studenti, più che delegarli ad un ruolo di spettatori. Solo una didattica viva e coinvolgente può formare studenti in grado di orientarsi al meglio nella società e di apportare un contributo originale alla comunità scientifica.

La ricerca richiede passione e continuità

Forse troppo poco spesso si parla di quanto possa essere divertente fare ricerca, di quali soddisfazioni possa dare, di quale gioia possa riempire la vita. Un recente articolo lo ha raccontato (5), sottolineando allo stesso tempo quanto può essere difficile rinunciare a questa iniezione quotidiana di endorfine in periodo di quarantena. Sì, perché la ricerca in quarantena si può continuare a fare, tra diversi disagi, importanti menomazioni (il lavoro sperimentale, di campo, in archivio, per fare alcuni esempi, non sono possibili) e, soprattutto, in solitudine. Ma senza continuità e confronto la ricerca perde ricchezza.

Lo sanno bene le donne quando, durante il congedo di maternità, continuano per quanto possibile a lavorare da casa: nonostante gli sforzi, quel “non esserci” pesa comunque come un macigno, sulla soddisfazione personale e sulla carriera. Lo sanno bene le precarie e i precari della ricerca, quando per sopravvivere passano da un progetto all’altro e/o da un gruppo all’altro, ricominciando ogni volta da capo. Lo sanno direttrici e direttori dei gruppi di ricerca, quando regolarmente vedono il gruppo disfarsi e perdere elementi validi, con tutte le loro competenze.

Il lavoro di ricerca è, infatti, lavoro di gruppo perché ognuno porta un contributo diverso e necessario. Le conoscenze possono essere comuni, ma anche all’interno di una stessa disciplina si porta non solo quello che si conosce ma anche ciò che si sa fare, le proprie qualità e, con esse, i propri limiti. C’è chi è più intuitivo, chi più analitico. Chi ha capacità teoriche più spiccate e chi è più bravo sul piano sperimentale. Capacità tutte necessarie, che solo una sana dinamica di gruppo può integrare al meglio. In questo periodo ci appare quindi più evidente come il gruppo di ricerca e la sua continuità siano fondamentali per la costruzione di una comunità scientifica vivace ed efficace.

Non esiste ricerca di qualità senza risorse

La riduzione progressiva del finanziamento pubblico agli atenei e agli enti di ricerca ha reso i finanziamenti delle agenzie nazionali e internazionali, pubbliche e private, su base competitiva, l’unica possibilità concreta di fare ricerca. Ma, con la fine del progetto finanziato, terminano anche i contratti di chi ci lavora. Se la mobilità del personale di ricerca, anche internazionale, favorisce l’ulteriore scambio e crescita culturale, la precarietà ne mortifica gli sforzi. Quale “eccellenza” si può pretendere da soggetti che trascorrono larga parte del tempo che dovrebbero dedicare alla ricerca a preoccuparsi di trovare una nuova posizione lavorativa prima dell’ennesima scadenza di contratto, a partecipare continuamente a questo o quel bando per ottenere i fondi basilari per lavorare?

In questo contesto, la Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) – da cui dipendono gli scarsi finanziamenti ordinari agli atenei utilizzati per il reclutamento di nuovo personale e per le attività di base – per come attualmente impostata, sembra piuttosto misurare la quantità. Questa impostazione distrae il ricercatore dal farsi le domande giuste, dal cercare le risposte in modo rigoroso, dal confrontare le conclusioni con il resto della comunità per giungere a una temporanea evidenza condivisa, svilisce la qualità della ricerca, in una continua corsa alla pubblicazione (“publish or perish”) e, allo stesso tempo, rende il corpo accademico sempre più autoreferenziale.

Il risultato è che si fa meno ricerca e si fa meno bene: l’eccellenza nel deserto non riesce a essere contagiosa. La didattica ne risulta anch’essa impoverita. E la società non gode pienamente dei frutti della produzione scientifica.

La scienza realizzata in solitudine, la competizione per i finanziamenti, la corsa per la valutazione, non possono che produrre frammentazione della conoscenza e contrapposizioni all’interno della comunità scientifica, in cui si è costretti sempre più alla ricerca della visibilità piuttosto che al confronto costruttivo tra posizioni e ipotesi diverse.

Qualche proposta a breve e medio termine

La crisi pandemica ha messo in evidenza le falle del sistema, aggravandole, ma si sta anche rivelando un esercizio ecologico, individuale e collettivo, di scoperta di cosa è necessario, importante e prioritario, cosa ci fa vivere e gioire, cosa ci manca e cosa, al contrario, è superfluo e dannoso.

La scuola e l’università sono i luoghi primari di costruzione della cultura, di cui le istituzioni dovrebbero prendersi cura. Un concetto così elementare, ma al contempo così ignorato. Appare quindi come un paradosso che il risultato di sondaggi che indagano la priorità dell’opinione pubblica in questa fase non veda comparire ai primi posti l’università, anche a fronte della gratitudine espressa verso il personale sanitario, che nell’università si è formato. Forse perché al sistema universitario è venuta a mancare, come abbiamo provato a descrivere, una concreta vocazione pubblica, a cui è invece necessario ritornare, perché quel processo virtuoso si realizzi.

Nonostante tutto, la ricerca procede, grazie allo sforzo di ricercatrici e ricercatori. E mentre pubblicamente si proclama la funzione salvifica della scienza nei confronti della pandemia, nulla cambia per chi la scienza la costruisce quotidianamente. I gruppi di ricerca non hanno infatti ancora ricevuto risposte chiare su quali provvedimenti s’intendano prendere per arginare l’emergenza e garantire la continuità dei progetti. Al contempo, dottorandi, assegnisti di ricerca, ricercatori a tempo determinato, che costituiscono la stragrande maggioranza dei lavoratori della conoscenza, ancora non hanno avuto risposte rispetto ad una proroga dei contratti per garantire il recupero dei mesi di lavoro persi lontano dal laboratorio e dal gruppo di ricerca. Anzi, in alcuni casi si sono addirittura visti offrire la “possibilità” di sospendere i contratti, e con essi il proprio stipendio (6). È necessario dare delle risposte a queste domande (7) e mettere in campo misure adeguate per valorizzare (o perlomeno per non vanificare) l’impegno e la passione quotidiana, nonché i risultati di anni di lavoro, restituendo ai ricercatori precari la dignità che meritano (8). È necessario inoltre prendere in considerazione questo periodo di lavoro più lento e difficoltoso anche nella valutazione dei parametri dell’abilitazione scientifica nazionale, prevedendo una normalizzazione dell’età accademica per chi fa domanda.

Questo per dare un segnale rapido e concreto d’inversione di rotta come ovvia conseguenza delle dichiarazioni istituzionali sul valore della ricerca scientifica. Ma è solo un inizio. Sappiamo che non basta.

Non è la prima volta che dal mondo dell’università e della ricerca giungono richieste di maggiore investimento pubblico. Ma forse oggi più di ieri, di fronte alla crisi della capacità di comporre la complessità delle sfide e delle risposte, si può cogliere il valore sociale della ricerca, al di là della retorica. Se le istituzioni non inizieranno a salvaguardare davvero la comunità scientifica e a promuovere la produzione culturale nella sua interezza, attraverso il finanziamento pubblico alla ricerca, avremo rifiutato un importante insegnamento di questa emergenza: la salute della nostra società passa per la democrazia della conoscenza. Da questo bisogna ripartire.

Silvio Paone, post-doc all’Università di Roma “La Sapienza”, ha conseguito il dottorato in microbiologia, malattie infettive e sanità pubblica. Email: silvio.paone@uniroma1.it

Valentina Mangano, malariologa, insegna parassitologia e immunologia all’Università di Pisa. Email: valentina.mangano@unipi.it

Simona Sestito, post-doc all’Università di Pisa, lavora da diversi anni nel campo della biochimica e della chimica farmaceutica. Email: simona.sestito@for.unipi.it

Testo apparso anche su Scienza & Pace Magazine.


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