«Altro che difendermi! Ai tempi miei mio padre mi avrebbe preso a calci». Di fronte a ragazzi colti in fallo e a mamme indulgenti e arroccate sulla difensiva, la reazione degli adulti è – immancabilmente – questa. Come testimonia, peraltro, il nostro sondaggio che vede la quasi totalità del campione schierato con la scuola contro le mamme mammone.
Benedetto Vertecchi, professore di pedagogia nella terza università di Roma, ci aiuta a capire questo mammismo iperprotettivo?
«Mi viene da pensare al film ”I nostri ragazzi” di Ivano de Matteo. Lo conosceranno le mamme di Cuneo? E’ la storia di due ragazzi che commettono un omicidio e l’atteggiamento dei genitori non è quello di difenderli con una tutela legale, come sarebbe giusto e comprensibile, ma di negare, insabbiare, rimuovere. Ma senza ricorrere per forza ad una fiction, basta pensare a cosa accade quando un figlio viene bocciato: la prima cosa a cui si pensa non è se il figlio ha studiato o no, ma il ricorso al Tar».
Il figlio non va punito, insomma ?
«Il figlio. Solo il figlio, però. Gli altri, invece, vanno puniti eccome. Siamo tutti irremovibili, consideriamo tutti la legge infrangibile, eccetto che nel caso del figlio».
Non è stato sempre così, professore. Che cosa è successo?
«E’ successo che c’è stata una perdita della finalità dell’educazione. Mi spiego: l’educazione, e la scuola in questo ambito, avevano una valenza di prospettiva. Io ti educo affinché tu possa avere gli strumenti per affrontare la vita nel bene ma anche nelle contrarietà, nei sacrifici, nelle asprezze di cui consta. A un certo punto – lo vogliamo datare? Direi dalla fine degli anni Ottanta in poi – tutto questo si è perso. La scuola non è stata più sentita come parte di un processo educativo orientato all’esistenza, ma come un pacchetto di conoscenze che servivano a imparare qualche cosa per trovare un lavoro e – magari – fare i soldi».
La scuola come bene di consumo?
«Esattamente. Io ho un figlio, gli compro il motorino, il telefonino, la settimana bianca e anche quel prodotto immateriale che si chiama scuola e che magari gli può servire, ma solo in una logica utilitaristica e a breve. L’educazione per l’esistenza, e con essa la responsabilità, sono scomparse. La scuola è un genere di consumo in più. Punto e basta. E se utilizzando il giocattolo-scuola ci scappa un incidente, si possono al massimo pagare i cocci. Ma la responsabilità no. Quella è troppo».
La vita però non funziona così. Questi ragazzi un domani potrebbero essere chiamati ad assumersi delle responsabilità...
«Se l’educazione non serve alla vita ma solo per essere promossi quest’anno e trovare un lavoretto l’anno prossimo, capisce bene che questo ragionamento non ha senso. Per le mamme conta l’oggi. Il non perdere l’anno. E se poi tirano su un selvaggio … che sarà mai?»