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"Per fermare il declino italiano ci vuole l’economia della conoscenza"

Intervista a Pietro Greco, giornalista e divulgatore scientifico. Il suo nome era citato nelle tracce della maturità di quest'anno, sul tema dell'importanza della scienza. Un'affermazione su cui tutti in Italia concordano, anche se poi nessuno fa quel che sarebbe necessario: incentivare le lauree e dare fondi alla ricerca.

06/01/2014
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Mariassunta Alessio  da Linkiesta

Pietro Greco, è giornalista scientifico e scrittore e dirige da anni il Master in Comunicazione scientifica della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste, dove è anche project leader del gruppo di ricerca Ics (Innovazioni nella comunicazione della scienza). Laureato in chimica, è stato consigliere del ministro dell'Università e della ricerca, Fabio Mussi. È socio dell'agenzia di giornalismo scientifico Zadigroma, conduttore del programma Radio3Scienza, e dal 1987 collabora con il quotidiano L'Unità, oltre che con numerose riviste e case editrici.
«"La scienza può aiutarci a costruire un futuro desiderabile. Anzi, le conoscenze scientifiche sono mattoni indispensabili per erigere questo edificio…". Iniziava così una traccia del tema di maturità di quest’anno. Traccia che è stata ripresa da un suo recente articolo. Non capita tutti i giorni una cosa del genere, anzi fino ad ora era abbastanza inusuale che accadesse con persone contemporanee. Che effetto fa ritrovarsi in un contesto abbastanza insolito? E come lo ha vissuto?
Non nego che scoprire il mio nome in quella traccia è stato motivo tanto di sorpresa quanto di soddisfazione. E tuttavia c’è stato – e c’è tuttora – un certo imbarazzo. Trovarsi accanto a intellettuali del valore di Hans Jonas, Primo Levi, Leonardo Sciascia e Margherita Hack è una condizione che la mia modesta persona certo non merita. A questo aggiunga la responsabilità nei confronti dei giovani studenti. Spero che le frasi tratte dal mio articolo li abbiano stimolati a esprimere un pensiero critico e non fuorviati. E tuttavia penso che il tema scelto – al di là del mio nome – sia di importanza decisiva. Viviamo nella società della conoscenza. Una società in cui la scienza e il governo della scienza giocano un ruolo sempre più importante. Per costruire un futuro desiderabile occorre che la scienza sia, come diceva Francis Bacon, “non a vantaggio di questo o di quello, ma dell’intera umanità”. E occorre che il governo della scienza sia tale da salvaguardare sia il principio della partecipazione democratica alle scelte, sia il principio della libertà di ricerca. Non è facile trovare un equilibrio. Occorre un grande spirito critico, che è il fondamento stesso dell’impresa scientifica e l’opposto del vento della demagogia.
Il dibattito sulla scienza e sulla tecnologia è aperto. E la scelta di quest’anno sottolinea ancor di più quanto sia importante la vera conoscenza su questi temi, in un Paese dove peraltro i migliori se ne vanno….senza che ci sia un ricambio adeguato da parte di ricercatori stranieri. Quale vie si potrebbero seguire perché questo possa verificarsi?
L’Italia, a differenza di tanti altri paesi, non è entrata nella società della conoscenza. Non investe nell’università e nella ricerca scientifica. In Corea del Sud il 63% dei giovani di età compresa tra i 24 e i 35 anni è laureati. In Italia non si supera il 20%. E gli ultimi dati ci dicono che invece di aumentare nel tentativo di recuperare la distanza con gli altri paesi, nell’ultimo anno le immatricolazioni nelle università italiane sono diminuite del 10 per cento. La ricerca continua a essere sotto finanziata. E, inoltre, eleviamo un muro burocratico insormontabile per i giovani stranieri che vogliono venire a studiare in Italia. In tutti e tre i casi dovremmo fare l’opposto: cercare di incrementare il tasso di laureati, aumentare gli investimenti in ricerca, spalancare le porte ai cervelli stranieri. Per motivi culturali e sociali, in primo luogo. Ma anche per motivi economici. Ancora non abbiamo capito che il declino del nostro paese, che dura da vent’anni, dipende anche e forse soprattutto dal fatto che stentiamo a entrare nella società e nell’economia della conoscenza.
Temi, tracce, articoli, interviste. Partiamo da queste semplici cose per sottolineare un fatto importante: come avvicinare la scienza al grande pubblico, giovane o non giovane. La gente ha bisogno di sapere e di conoscere. La comunicazione dello scienziato con il pubblico è diventata un’esigenza sociale inderogabile. Quali sono secondo lei le tecniche e le strategie perché questo possa avvenire nel modo più diretto e corretto possibile?
Ci sono alcuni accorgimenti, per così dire, tecnici da mettere in atto per aumentare la capacità di dialogo. I ricercatori devono imparare a comunicare al pubblico dei non esperti, con rigore ma anche con creatività. Inoltre la comunicazione al grande pubblico deve diventare parte ordinaria del lavoro del ricercatore. Anche il sistema dei media deve cambiare: i comunicatori di professione devono acquisire una cultura scientifica. Ma da soli questi accorgimenti tecnici non bastano. Occorre che tutti – scienziati, mass media, istituzioni culturali e politiche, imprese – comprendano che per entrare nella società della conoscenza occorre creare un ambiente culturale con una forte vocazione all’innovazione, e nel medesimo tempo che per creare una società democratica della conoscenza occorre rispondere alla domanda emergente di “cittadinanza scientifica”. Che significa, in buona sostanza, accesso all’informazione e compartecipazione alle scelte.
Vediamo ora il rovescio della medaglia. Qual è l’atteggiamento più opportuno che il pubblico, e per pubblico intendo i “non esperti”, deve adottare per recepire nel modo più giusto possibile la comunicazione scientifica?
Il pubblico dei “non esperti” siamo tutti noi. Nessuno è esperto di tutto. E l’atteggiamento che dobbiamo adottare è quello di chiedere il rispetto dei diritti di cittadinanza scientifica. Di chiedere più informazione e più compartecipazione democratica alle scelte che, in un modo o nell’altro, evocano scienza. Essendo disposti, tuttavia, a esercitare fino in fondo un principio di responsabilità. Abbiamo il dovere di costruire una società democratica della conoscenza. Non è semplice. Per riuscirci dobbiamo acquisire un robusto spirito critico, sapendo che occorre una certa fatica. E dobbiamo acquisire una forte capacità di dialogo, abbandonando le logiche e le pratiche dello scontro ideologico.
Perché secondo lei mercati e conoscenza non vanno di pari passo? Come ovviare?
La conoscenza ha un doppio valore. Uno le è intrinseco. La conoscenza ha un valore in sé. Un valore che non viene riconosciuto dal mercato. Ma ormai la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico vengono finanziate, nel mondo, per i due terzi da imprese private. Questo pone alcuni problemi. Ai ricercatori che lavorano nelle imprese private viene spesso chiesto di aderire a una griglia di valori diversa da quella, mertoniana, che ha caratterizzato la comunità scientifica negli ultimi quattro secoli. Una griglia più pragmatica, forse meno libera. Che tende a deprimere, invece che a incrementare la creatività scientifica. Inoltre sappiamo che il mercato è uno strumento – non un fine – capace di catalizzare la produzione di ricchezza. Ma incapace di distribuirla equamente. Il che significa che se nella società della conoscenza l’unico criterio di attribuzione di valore è quello del mercato, allora la conoscenza stessa diventa un fattore di esclusione e non di inclusione sociale. In altri termini, in una società interamente dominata dal mercato i grandi benefici offerti dalle applicazione delle conoscenze scientifiche non vanno, come voleva Francis Bacon, all’intera umanità, ma sono da alcuni. Ecco, queste mi sembrano i due principali punti di frizione tra scienza e mercato.
Professore, se gli Enti di ricerca vengono guidati, come sta succedendo in Italia, da burocrati, cosa dovranno fare mai i ricercatori o gli studiosi in genere, oltre che vivere tra provette e sieri?
Non generalizzerei. Molti enti pubblici di ricerca sono guidati da ottimi scienziati, non da burocrati. Tuttavia la costruzione di una matura cittadinanza scientifica riguarda anche i ricercatori, come dire, nell’esercizio del proprio lavoro. Chi fa ricerca deve sapere che il suo lavoro ha valore per l’intera società. E dunque la difesa delle migliori condizioni di lavoro è un suo dovere sociale, non meramente sindacale. In pratica questo significa che i ricercatori degli Enti pubblici di ricerca devono avere, individualmente e collettivamente, un forte spirito critico che si esercita in primo luogo verso la propria comunità, verso la propria dirigenza, verso il potere politico. Devono avere la forza di difendere la propria libertà di ricerca – che è un bene prezioso per l’intera società – quando viene minacciata e in tutte le forme in cui la minaccia si esprime: da quello burocratico a quello economico. Inoltre – per parafrasare Albert Einstein – i ricercatori sanno meglio di altri dove la scarpa italiana dell’innovazione fa male. E, dunque, devono chiedere con maggior forza che il paese imbocchi la strada verso una società e un’economia democratiche della conoscenza. L’unico percorso che può portare l’Italia fuori dalla lunga crisi che l’attanaglia. E che non è solo una crisi economica.


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