Pavonerisorse: Una giornata particolare
Marina Boscaino
Giornata tersa, dopo tanta pioggia. Sole accecante, aria limpida, pulita dal vento freddo del mare, in una suggestione di colori che solo Roma riesce a produrre in quei giorni gloriosi in cui anche le periferie più anonime assumono un proprio perché; e il centro – gli ocra, il terra di Siena, il verde – ti fa, sebbene recalcitrante, innamorare ancora di questa città. Penultimo giorno di scuola, prima della chiusura natalizia.
Lui è un uomo piccolo di statura; ma è un grande uomo, un uomo grande. La faccia sorridente, si vede che sta lì senza alcuna ansia di piacerti. Si chiama Stefano, è un medico. Si è lauretao al Policlinico Gemelli. Poi – quasi 30 anni fa – è partito per il Madagascar. Che non è quel luogo fantasioso e bizzarro del famosissimo cartone animato; ma uno dei paesi più poveri del mondo. Stefano non è semplicemente un medico, un chirurgo. È un frate cappuccino. Ha 60 anni e ne dimostra almeno 10 di meno. Ad Anbanja – all’interno di una missione – ha fondato e poi costruito, pietra dopo pietra, un ospedale. Iniziando lentamente nel 1988 quando, a causa della crisi, mancava persino il cemento. Oggi l’attività è frenetica: all’ospedale fa riferimento una zona abitata da 78.000 persone; vi si eseguono dai 1000 ai 1700 interventi di chirurgia generale ogni anno; dalle 270 alle 320 operazioni di cataratta, piaga da malnutrizione e condizioni di vita deprivate, che colpisce anche i giovanissimi; 3-4 cesarei a settimana. I bambni ricoverati in 10 anni sono stati circa 1500 e le unità mobili ne hanno visitati 14.000. Serve tutto. Tutto è utile. Stefano trascorre 2 mesi dell’inverno in Europa per reperire fondi e medicine.
Durante il tragitto verso scuola abbiamo parlato con pacatezza, senza fretta: il valore del tempo. La più banale delle domande: “Perché succedono alcune cose per le quali non riusciamo a trovare un senso, una necessità, una giustizia? I bambini; i bambini condannati al dolore, alla morte da malattia, da fame, dalla violenza. Dov’è Dio? Come è possibile immaginare che esista Dio? Non credo, Stefano”. Mi ha risposto con parole semplici: le tue certezze sono i miei dubbi. Le tue domande sono anche le mie. Con pacatezza e senza fretta ha raccontato la sua storia ai ragazzi del triennio della mia scuola. Una storia importante, significativa. Senza strafare, senza enfatizzare. Si tratta di una storia d’amore e di passione. Amore e passione per l’altro. Amore e passione per una scelta il cui senso – ha spiegato padre Stefano – non avrebbe potuto essere che quello: fare, aiutare, sostenere, essere vicini. E come davanti a tutte le storie d’amore e di passione il pubblico era incantato. Le immagini sfilavano insieme alle parole: la sala operatoria, la sala parto, gli strumenti. Stefano che opera; i colleghi – tutti ragazzi indigeni che hanno studiato e ora lavorano lì; la distribuzione dei farmaci; l’interminabile fila per le visite. E poi le strade – se strade si possono chiamare. Le capanne. Sorrisi, sguardi. Gli sguardi: quelli dei bambini africani, occhi sui quali si costruiscono epiche ad uso e consumo di noi occidentali; ma che rischiano di diventare come i numeri dei morti in guerra, i numeri delle vittime delle mine antiuomo, i numeri delle bambine infibulate, i numeri delle prede del turismo sessuale. Numeri, appunto. Cifre scabre che ascoltiamo senza percepirle e capirle più; dietro le quali non vediamo più l’individuo, l’umanità, il bambino. E invece la presenza di Stefano, la sua testimonianza diretta – lui lì, tra loro, tra gli altri, tra i diseredati, tra i diversi, lontani da noi; e poi con noi, in una mattinata tarda di dicembre – ha restituito magicamente quella dimensione. I ragazzi hanno capito, come quasi sempre accade. Certo, le vittime della superficialità, dell’autoreferenzialità, del conformismo indotti esistono anche tra gli studenti e sacche di resistenza e di disinteresse ci sono state, come pure accade sempre: qualcuno pizzicato con il cellulare in mano a mandare sms; sporadiche risatine fuori luogo; qualche chiacchiera inopportuna: a sottolienare che un mondo perfetto non esiste; e che non esistono tutto il bene e tutto il male insieme; e che questa non è una favoletta natalizia buonista. Ma ai due ragazzi, colti placidamente a “limonare” alla fine dell’incontro, abbiamo dedicato un applauso, come se quei baci belli fossero il segno gioioso di una giornata che si concludeva all’insegna della vita.
È stata nel complesso una giornata utile, importante. Sono venute fuori domande intelligenti, sensate, curiose, mentre Stefano parlava dei suoi bambini – quelli che ha adottato lui, personalmente – e le storie di Chrisolin, di Giacomino, delle gemelline Janette e Janine si intrecciavano con le foto e le osservazioni della maggior parte degli studenti. Molte le domande sulla ricerca di senso: il senso di una vocazione maturata altrove e sperimentata, vissuta nel fare, nell’essere insieme. Come se non fosse stato possibile diversamente. Noi visti da lì. La lotta per esistere contro la lotta per avere. Un avvertimento di smagato distacco, una distanza esistenziale, psicologica: il sorriso buono ma disincantato di chi vive quotidianamente la contraddizione tra quelle due forme di lotta così lontane. E percepisce l’assurdità e l’ingiustizia della seconda sulla prima. E poi la scuola: ancora una volta parola chiave per lo sviluppo. Istruzione, istruzione, istruzione, la risorsa alla quale la missione, nella totale mancanza di sovvenzioni da parte dello stato del Madagascar, affida la scommessa dello sviluppo di un paese poverissimo. Una risorsa non scontata, in un luogo dove nulla è scontato. Tutto questo hanno sentito i ragazzi. Lo hanno sentito profondamente, per la maggior parte: lo dimostrano le domande, tutte pensate, non banali; la raccolta di fondi che si è organizzata; l’intervista per il giornalino scolastico, articolata e ideata per far capire, per comunicare; il proposito di raccogliere da gennaio a giugno 2 euro a studente ogni mese – il costo di 3 brioche al bar della scuola – per comprare un ecografo per l’ospedale di Stefano; la possibilità di mandare 5 studenti quest’estate ad aiutare, a rendersi utili; a toccare con mano quello che hanno visto con gli occhi.
È stata una bella giornata, senza retorica. Che ha rotto per un istante l’illusione consumistica del Natale e restituito senso ulteriore alla scuola. Chi volesse sapere qualcosa di più di padre Stefano, del suo ospedale e della missione di Anbanja può consultare il sito www.alessiaeisuoiangeli.org