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Oltre San Matteo: dalla valutazione retrograda alla valutazione prospettica

Sarebbe necessaria una politica attenta alle specificità, flessibile nelle sue soluzioni, e mirata allo sviluppo piuttosto che alla depressione

07/03/2015
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ROARS

Di Francesco Coniglione

La valutazione – nelle università e nella scuola, per non dire di altri ambiti – è considerata ormai un processo non solo inevitabile, ma giusto e necessario, per cui essa non viene più messa in discussione quasi da nessuno. Negli incontri sollecitati dall’Anvur, dove sono invitati i rappresentanti delle principali società scientifiche, la discussione parte ormai dall’assunto indiscutibile della necessità della valutazione, della sua giustezza, del fatto che essa debba essere effettuata secondo le direttive stabilite negli ultimi anni e implementate dall’Anvur. La discussione verte solo sul come effettuarla nel modo più efficace possibile, su come scegliere la tecnica migliore in relazione a ciò che deve essere valutato. Domande su cosa debba essere valutato, a quale fine lo debba essere e quali siano gli effetti della valutazione, sono tacitamente accantonate come irrilevanti o, peggio ancora, ritenute già superate nella prassi implementata. Ho in passato cercato di affrontare alcune questioni di fondo sulla valutazione: donde la sua esigenza negli ultimi tempi, rispetto ad un recente passato in cui tale esigenza non era avvertita? Non esisteva del tutto la valutazione in passato o, se in qualche modo era presente, in che modo è cambiato il modo di esercitarla? Vorrei ora riprendere questi temi ponendo una questione di fondo che di solito non viene affrontata, se non di sfuggita.

Cosa viene valutato. Di solito la valutazione come esercitata dall’Anvur nelle università (e dall’Invalsi nelle scuole – ma ci concentreremo solo sulla prima, anche se molte delle considerazioni che faremo varranno anche per la seconda) ha come proprio oggetto “i prodotti della ricerca” o i risultati conseguiti in vari campi e secondo diversi parametri (internazionalizzazione, efficacia della didattica ecc.). Prendiamo ad es. la VQR. In questo caso si valuta attraverso un processo di peer review (per i settori umanistici) o utilizzando indici bibliometrici (per i settori per i quali sono disponibili) la qualità dei prodotti della ricerca. La discussione è attualmente concentrata esclusivamente su come effettuare al meglio questa valutazione. Ma qui non ci interessa questo piano del discorso e anzi supponiamo che – qualunque sia il metodo prescelto – essa avvenga nel migliore dei modi, cioè riesca effettivamente a valutare come eccellente un prodotto eccellente e scadente un prodotto scadente. È una assunzione idealizzante molto forte, visto che di solito le critiche alla procedura messa in atto dall’Anvur si sono incentrate sui suoi molteplici difetti ed inadeguatezze, con le conseguenti controproposte per raggiungere quanto più possibile il risultato. Ma facciamo questa ipotesi per far meglio risaltare la ratio del discorso che vogliamo fare.

Ebbene, quando si valuta il prodotto scientifico di un ricercatore negli ultimi x anni si fa nella sostanza una operazione con cui si prende atto di una realtà costituita, effettuale e immodificabile (perché semplicemente passata). Si fa nella sostanza una operazione di inventario, per cui la constatazione che i prodotti del ricercatore Scipione sono eccellenti, e che di conseguenza il suo dipartimento Legione Africana è eccellente, non incide per nulla sulla natura di Scipione e della Legione Africana: così come questi sono stati eccellenti nelle condizioni x al tempo t, verosimilmente lo saranno anche alle condizioni x+1 e al tempo t+1, anche senza che nessun effetto dell’esercizio di valutazione si sia dispiegato o abbia avuto il tempo di dispiegarsi. A meno di una improvvisa senescenza intellettuale o rincoglionimento complessivo di tutti i ricercatori della Legione Africana, questi continueranno ad essere eccellenti per una semplice ragione: sono degli ottimi ricercatori, sono dotati di talento e hanno il gusto per la ricerca e la volontà di pubblicare i propri risultati.

Lo stesso accadrà per il ricercatore dichiarato scadente, anche se in senso opposto: preso atto che i prodotti di ricerca di Annibale sono pessimi e che quindi il suo Dipartimento è scadente, si sarà constatata una situazione di fatto che – indipendentemente dalla valutazione – resterà tale e quale anche in futuro, per la ragione esattamente contraria: Annibale è il solito figlio di papà incardinato nel solito dipartimento clientelare e continuerà a produrre prodotti scadenti perché è un cretino e tale resterà (purtroppo l’imbecillità è non curabile, con nessun mezzo). In questo caso il danno minore che potrebbe fare è non contribuire a distruggere il patrimonio forestale col pubblicare montagne di carta inutile.

A che serve la valutazione. Ma meno male che c’è la valutazione! Essa infatti – nella ipotesi idealizzante fatta – ci permette finalmente di certificare che Scipione è eccellente e Annibale un cretino; e che il dipartimento Legione Africana è eccellente, mentre quello di Annibale è pessimo. A questo punto ci si domanda in che modo la valutazione può incidere su questa situazione: è ovvio, ci dice la vulgata meritocratica: essa serve a premiare i meritevoli e a non premiare o disincentivare (non diciamo “punire”, altrimenti potremmo scivolare in un discorso di tipo etico) gli immeritevoli. Questo avviene – è noto – attraverso l’attribuzione della quota premiale alle università (che ammonterà per il 2016 al 20% del FFO). Ancora per semplicità, ipotizziamo che tale premio vada non a Scipione (sarebbe troppo!, ma il discorso non cambierebbe di molto), bensì al Dipartimento di appartenenza. Questo si troverebbe a possedere risorse aggiuntive che non servirebbero affatto a far produrre di più Scipione, che già di suo, senza bisogno di quote premiali, fa abbastanza (è eccellente!), ma ad aumentare la “ricchezza del dipartimento” che potrebbe essere utilizzata per assumere ulteriori ricercatori, che supponiamo siano tutti eccellenti come Scipione e quindi contribuiranno a migliorare ulteriormente la performance del dipartimento. Insomma la quota premiale servirebbe solo fare divenire più eccellente chi è già eccellente, nella logica di quello è stato chiamato “effetto San Matteo” (Matteo, 25, 29).

Nel caso di Annibale, invece avverrebbe il fenomeno contrario: il Dipartimento, dotato di minori risorse, non solo non può in nessun modo incentivare i suoi Annibali a produrre di più (non può neanche fare o commissionare ricerche per terapie “eccellificanti”, ammesso che possano esserci, per aumentare il loro tasso intelligenza e talento), ma non potrà neanche – ipotizzando che lo si voglia fare da parte di qualche illuminata direzione – cercare di assumere degli Scipioni in modo da far migliorare il proprio tasso di qualità, perché mancherà sempre più di risorse.

Nel caso in cui non vengano adottate altre misure di compensazione (che però di fatto si metterebbero in controtendenza con la VQR, fatta proprio per premiare l’eccellenza e quindi differenziare le università), la conseguenza di tale tipo di esercizio valutativo sarà non solo quello di non aumentare la qualità media delle università italiane, ma piuttosto di approfondire la loro distanza sino a giungere a un sistema dipolare con università di serie A e B (appunto!), con studenti di serie A e B, con regioni di serie A e B e infine con livelli di servizi (avvocati, medici ecc.) di serie A e B, con relativi flussi migratori dalle situazioni B e quelle A (di studenti, pazienti, utenti ecc.), per chi se lo potrà permettere; gli altri si accontentino. Insomma un bel passo indietro rispetto a una ipotesi egualitaria e distributiva, in barba a Costituzione, Unione Europea e vari progetti di Lisbona ed Europa 2020 e così via: in questo caso l’Europa non conta nulla. Ma v’è qualcuno a cui tale prospettiva evidentemente piace.

Valutazione retrograda e valutazione prospettica. Il tipo di valutazione che abbiamo descritto possiamo definirla di tipo “retrogrado”: essa guarda al passato, lo certifica e non si propone per nulla di cambiarlo, semmai di ulteriormente radicarlo e approfondirlo nella configurazione che viene certificata. Può semmai avere solo un effetto punitivo verso coloro che non rispondono a standard minimi di qualità, assestando loro non colpi di frustra o altre punizioni corporali, ma decurtazioni di stipendio, di prestigio, di onori ecc., magari facendoli cadere in depressione, portando a una loro disaffezione verso l’istituzione e ingenerando una sorta di sabotaggio tacito e sotterraneo.

Ma v’è un altro tipo di valutazione. Mettiamo che un illuminato capo d’industria si proponga di assumere dei ricercatori o dei dipendenti di alta qualità, che possano portare al miglioramento della produzione e alla sua innovazione. Che farà? Seleziona giovani brillanti mediante dei test (di vario tipo) che non certifichino quello che hanno già prodotto (se non in misura minima) ma innanzi tutto mirino ad accertare le loro qualità (intelligenza, talento, passione, capacità di identificarsi con l’etica aziendale ecc.) e quindi li mette nella condizione quanto più favorevole possibile per permettere loro di produrre idee o lavoro efficace, allo stesso modo di come il ragno produce la tela. Oppure può anche puntare sull’usato sicuro, cioè assumere ricercatori che hanno già dato prova di sé altrove e li immette nella propria industria. In ogni caso la valutazione serve qui a sviluppare una strategia di attacco, proiettata al futuro, che mira ad eliminare i punti di debolezza e a consolidare quelli già di punta. È questa una valutazione proiettiva, progettuale, che serve a mettere in atto strategie che mirano al cambiamento; essa non serve a constatare una situazione di deficienza e a sanzionarla o approfondirla, ma mira a superarla e le risorse disponibili vengono impiegate proprio a questo scopo.

Ebbene questo tipo di valutazione è proprio il contrario di quella messa in atto nelle università (e nelle scuole), che è solo di tipo retrogrado: non solo essa ignora (come già rilevato) l’esistenza di differenziazioni interne ai singoli atenei, ma si limita a sanzionare l’esistente senza fare nulla, assolutamente nulla, per cambiarlo. Per fare ciò sarebbe necessaria una politica opposta a quella attuale: effettuare una valutazione sí di accertamento (anche se con altri sistemi rispetto a quelli sinora utilizzati dall’Anvur), ma orientata a interventi che – realtà per realtà, dipartimento per dipartimento – possano portare ad un aumento del tasso di qualità. Per dirla all’ingrosso, se si constata che un certo dipartimento ha un tasso di clientelismo e localismo assai elevato (la solita “pietra dello scandalo”, sempre sulle pagine dei giornali), è inutile punire l’esistente, in un’ottica moralistica, attraverso la decurtazione delle risorse; bisognerebbe piuttosto finanziare, ad es., solo assunzioni nella direzione della acquisizione di personale di alta qualità (studiosi residenti all’estero, che abbiano certi requisiti, che siano selezionati in modi particolari, o comunque provenienti da altre realtà universitarie e così via); o incoraggiare l’internazionalizzazione, o migliorare i laboratori e via dicendo. Insomma, piuttosto che dare o togliere quote di FFO all’intera università, che non hanno altro effetto se non canalizzare le poche risorse residue verso i gruppi più forti (non quelli più eccellenti), oltre che a creare su scala nazionale il modello dipolare, sarebbe necessaria una politica attenta alle specificità, flessibile nelle sue soluzioni, e mirata allo sviluppo piuttosto che alla depressione. Insomma una “politica dell’università”, analogamente a come sarebbero anche necessarie una “politica industriale” (che manca), una “politica dell’ambiente” (che manca) e una “politica della salute” (che manca), ecc. In questa luce l’Anvur dovrebbe ridefinire radicalmente il proprio ruolo nella direzione di uno organismo strumentale di accertamento delle situazioni di difficoltà delle varie sede universitarie, in modo da fornire le informazioni necessarie affinché possa essere decisa a livello politico la strategia da seguire per superarle, di concerto con le singole università interessate e le loro rappresentanze (come il CUN).

Ma per fare tutto ciò è necessario muoversi in un’ottica di sviluppo complessivo del livello di istruzione, di maggiore qualificazione della ricerca nel suo complesso, di perequazione non solo salariale, ma anche delle conoscenze, della formazione e delle possibilità. Sarebbe la vera politica meritocratica, la quale non può ridursi a solo premiare chi non ne ha affatto bisogno, ma nel predisporre i percorsi che possono dare, a chi è effettivamente capace, la possibilità di “farcela”. Insomma occorrerebbe un ripensamento complessivo del modo in cui la valutazione è stata sinora pensata e attuata. Purtroppo è proprio questa volontà di ripensamento che mi sembra assente.


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