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Nuove norme per i ricercatori, è giusto riservare alle madri lo stesso trattamento dei disabili?

La riflessione di Stefano Semplici, docente di Etica a Tor Vergata, sul testo base sul reclutamento: per evitare raccomandazioni, sono esclusi tutti i candidati interni tranne le donne con figli e i disabili. «Così non si finisce per perpetuare il pregiudizio?»

11/05/2021
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Corriere della sera

La Commissione Cultura della Camera dei deputati, al termine dei lavori di un comitato ristretto che ha unificato diverse proposte in materia di reclutamento e stato giuridico dei ricercatori, dottorato e assegni di ricerca, ha adottato il 27 aprile il «testo base» da utilizzare «per il seguito dell’esame». In questo testo spiccano per la loro importanza le nuove norme che verrebbero introdotte per il reclutamento dei ricercatori, intervenendo sull’articolo 24 della legge Gelmini. Si tratta di un passaggio fondamentale della carriera universitaria, soprattutto perché questo contratto consentirebbe ai titolari che abbiano conseguito la relativa abilitazione scientifica di diventare professori associati attraverso una semplice valutazione da parte del loro ateneo anziché un vero e proprio concorso. Per tutti varrebbe dunque ciò che attualmente vale solo per quelli che per gli addetti ai lavori sono i «ricercatori lettera b)» e questo diventerebbe il canale di reclutamento di quasi tutti i nuovi docenti.Dalla correttezza e trasparenza dei concorsi da ricercatore dipenderebbe in sostanza il futuro dell’università italiana e la Commissione Cultura sembra concentrarsi su due possibili fattori di rischio, che possono facilmente sovrapporsi in uno dei capi d’accusa ricorrenti contro i professori universitari. Anche nella presentazione di una delle proposte unificate in questo testo si rilancia il sospetto di un sistema «basato su selezioni apparenti, che di fatto talvolta si rivelano delle formalità dietro cui si cela il ricercatore sponsorizzato dal barone di turno». I due fattori di rischio sono la composizione delle commissioni e gli eventuali rapporti fra i potenziali candidati e l’università che bandisce il posto. Per contrastarli il testo individua due strumenti: il sorteggio dei commissari all’interno di una rosa ampia a livello nazionale e l’esclusione di «coloro che nel quinquennio precedente hanno prestato servizio, o sono stati titolari di assegni di ricerca ovvero iscritti a corsi universitari nell’università stessa».Tutti? No, perché questa disposizione non si applicherebbe «alle donne con prole di età non superiore a 18 anni e alle persone con disabilità».

Io credo che, per quanto riguarda le donne, questa proposta possa risultare allo stesso tempo ingiusta (discriminatoria?) ed espressione di un pregiudizio (maschilista?) che occorrerebbe invece superare. Se si pensa che i condizionamenti locali possano trasformare in una finzione le procedure concorsuali e che non basti il sorteggio per evitarlo, occorre offrire un argomento molto, molto robusto per sostenere che questo vantaggio (la sponsorizzazione dei baroni) è un problema solo nel caso dei maschi e delle donne senza figli. Si potrebbe naturalmente sostenere che è bene favorire la mobilità degli studiosi e che questo è il motivo del divieto di partecipare al concorso bandito dalla propria sede, ma si tratterebbe comunque di giustificare il diverso trattamento previsto per le madri. Se l’argomento proposto per superare il test di ragionevolezza richiesto per norme che introducono differenze di trattamento rilevanti fosse quello che la prole di età non superiore a 18 anni, almeno dal punto di vista di una maggiore difficoltà di mobilità, rappresenta per le donne (e non per i loro compagni) un onere tale da giustificare la stessa eccezione che si prevede per le persone con disabilità, si ribadirebbe di fatto l’antica convinzione in base alla quale i figli, alla resa dei conti, sono un «problema» delle madri e proprio non si può evitare che sia così.

Sappiamo tutti che questo problema è reale, ma non riesco proprio ad accettare che la soluzione possa essere quella di trasformare la condizione di madre in un vero e proprio requisito per non essere esclusi da un concorso che consente di avviare una carriera a torto o a ragione considerata pregiata. Soprattutto se fosse vero che i «baroni» (qui constato che si usa sempre e solo il maschile) sono in grado di «pilotare» i concorsi che si svolgono nelle loro università a vantaggio dei loro allievi. E lo dico pensando anche alle donne che i figli non vogliono o non possono averli. Sono però un maschio e quindi dovrei forse tacere, in attesa che siano le colleghe a esprimersi. È allora prima di tutto a loro che domando cosa penserebbero di una legge che escludesse i candidati «locali», intorno ai quali si sono consumate tante polemiche, proseguite qualche volta nelle aule dei tribunali, con l’eccezione di persone disabili e donne. Purché madri e dunque con uno strumento ben diverso, nei presupposti e nelle conseguenze, da quello, anch’esso controverso, delle «quote rosa». Siamo sicuri che sia questo il tipo di provvedimenti con i quali garantire alle donne – a tutte le donne – la parità di diritti da tutti auspicata e finora tanto poco realizzata?
*docente di Etica sociale all’Università di Roma Tor Vergata


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