Non c’è un modello perfetto per i concorsi. Ma basterebbe poco per migliorare
I professori hanno probabilmente molte responsabilità per i “problemi” legati ai concorsi e che attirano con frequenza crescente l’attenzione dell’opinione pubblica, per non parlare dei giudici. È però lecito domandarsi se non siano almeno indotti in tentazione proprio da alcune delle regole che dovrebbero aiutarli ad allontanarsi da essa
Stefano Semplici
Il ministro Manfredi, in una lettera aperta pubblicata su Huffington Post il 14 settembre, parlava delle risorse del Recovery Fund come di un’occasione preziosa per l’università e la ricerca italiane, che hanno bisogno di «ripopolarsi di giovani ricercatori dinamici, motivati», attratti e garantiti da «regole semplici e basate sul rigore del merito». Siamo sicuri che le regole dei concorsi universitari corrispondano a questa definizione? Non si dovrebbe piuttosto chiedere al ministro di considerare un radicale ripensamento del sistema attuale una condizione imprescindibile del percorso che ha annunciato? Ciò che è accaduto in questi dieci anni (a proposito: tanti auguri, ovviamente con la tongue in cheek, alla legge Gelmini!) è sotto gli occhi di tutti: l’abilitazione scientifica nazionale alimenta a ciclo continuo aspettative destinate in troppi casi a trasformarsi in rabbia e frustrazione, in particolare nei settori nei quali maggiore è la sproporzione fra numero degli abilitati e numero dei posti effettivamente disponibili; la babele di norme, soglie e algoritmi ai quali è stata affidata la tutela su base “scientifica” del merito ha fatto aumentare a dismisura confusione e contenziosi, appesantendo il lavoro dei magistrati e con benefici incerti nella lotta al “familismo” accademico; resta aperta la piaga di una molteplicità di figure, contratti e forme varie di precariato che producono sofferenze gravi dal punto di vista personale e finiscono per creare ulteriori pressioni improprie sulle procedure di reclutamento. Potrei facilmente continuare, passando per le modalità di formazione delle commissioni e le alchimie sugli articoli 18, 18 comma 4 e 24. E così via…
Non credo che ci sia la possibilità di cambiare lo “spirito” delle recenti riforme. L’università, come tanti altri luoghi e istituzioni della nostra vita, resterà probabilmente un luogo di competizione spietata fra persone e gruppi, con qualche concessione poco più che retorica al lessico e alla pratica della cooperazione. La pandemia finirà e tutto tornerà come prima. Continuo naturalmente a sperare che sia possibile invertire la rotta, ma sono quasi rassegnato all’idea che toccherà a un’altra generazione farlo. Ci sono però, a mio avviso, alcune correzioni sulle quali vincitori e sconfitti dell’aspro confronto sulla VQR e le sue classifiche potrebbero forse provare a riflettere insieme, perché la valorizzazione del merito, quando le intenzioni sono sincere, non può che essere un obiettivo condiviso e la burocrazia inutile è un peso sempre più insopportabile per tutti. Ecco dunque le poche idee che mi piacerebbe discutere con i colleghi e soprattutto con quelli che in questi anni hanno avuto il coraggio di entrare nelle commissioni e cercare di fare il loro dovere. Alcune, come è inevitabile, non sono nuove e circolano da tempo. Anche per questo non mi dilungo nelle spiegazioni, superflue per chiunque conosca il mondo universitario.
1) I momenti di selezione fondamentali, nella vita universitaria, sono tre e riguardano: a) l’accesso al dottorato (importante, perché comporta nella gran parte dei casi un giudizio dentro/fuori sostanzialmente definitivo); b) l’ingresso in una posizione a tempo indeterminato (passaggio che corrisponde oggi alla presa di servizio come professore associato); c) la promozione a professore ordinario. Il più importante è il secondo e occorre a mio avviso puntare senza esitazioni su due interventi, che guardano rispettivamente all’obiettivo della semplificazione e del ringiovanimento: a) un’unica modalità di accesso al ruolo degli associati, corrispondente all’attuale RTDb (anche per conservare l’idea di un triennio comunque “di prova”), con la conseguente eliminazione dei concorsi che consentono un accesso diretto alla seconda fascia (il tutto dopo aver risolto in modo definitivo la questione dei ricercatori inseriti nel vecchio ruolo e in possesso di abilitazione); b) il massimo contenimento possibile del tempo da trascorrere nella “terra di mezzo” nella quale i giovani entrano dopo il dottorato. La soluzione più efficace potrebbe essere quella di prevedere un’unica tipologia contrattuale a tempo determinato (RTDa o altro), con una durata non superiore a tre/quattro anni e non rinnovabile per nessuna ragione (preoccupandosi al tempo stesso di garantire concreti sbocchi occupazionali a coloro che non avessero poi accesso alla carriera accademica). Occorre, in particolare, limitare una volta per tutte in modo radicale l’uso dei contratti di insegnamento, anche a costo di determinare la chiusura di alcuni corsi. Per i concorsi che consentiranno l’accesso alla fascia degli associati, il dottorato dovrebbe essere considerato un titolo da valutare in modo adeguato insieme agli altri e non un requisito necessario.
2) La procedura “ordinaria” prevista dall’art. 18 della legge Gelmini, con bandi aperti a tutti ma per un’unica sede e di norma per un unico posto, genera fatalmente conflitti e sospetti di ogni tipo. Occorre riconoscerlo con onestà ed eliminarla, trasformando in regola quanto previsto dal comma 4 dello stesso articolo. Tutti coloro che abbiano avuto negli ultimi anni un rapporto “stretto” (laurea, dottorato, assegni di ricerca, contratti RTDa o di insegnamento, ecc.) con l’ateneo che mette a concorso un posto dovrebbero essere esclusi dalla possibilità di partecipare alla relativa procedura, con l’eventuale eccezione di cui al punto 3. L’esclusione degli “interni” può apparire per alcuni versi ingiusta, ma si tratta, a mio avviso, di un “male necessario”.
3) Una volta scelta in modo inequivocabile questa strada, la possibilità di una progressione “interna” (ex art. 24 della legge Gelmini) potrebbe essere conservata per i concorsi di prima fascia, pur nella consapevolezza dei rischi che essa comporta. Non va demonizzata l’idea che possano essere riconosciuti in questo modo i risultati ottenuti dai potenziali candidati nelle diverse “missioni” dell’università e credo vada lasciata ad atenei e dipartimenti la possibilità di non perdere i “migliori” solo perché questi ultimi aspirano del tutto legittimamente a un avanzamento di carriera. Proprio questo timore potrebbe peraltro contribuire in modo efficace a disincentivare scelte poco “virtuose”. Sarebbe naturalmente necessario rispettare una proporzione adeguata fra le due modalità (corrispondenti all’articolo 18, comma 4 e all’articolo 24 della legge Gelmini) e auspicabile prevedere meccanismi che garantiscano in tutti i settori almeno il primo tipo di opportunità a tutti gli studiosi.
4) L’attuale sistema implica il rischio che alcuni docenti si trasformino in veri e propri “forzati” delle commissioni. Si potrebbe dunque ipotizzare, per ogni settore scientifico-disciplinare, di “raggruppare” ogni anno a livello nazionale le diverse procedure comparative, riconoscendo almeno alcuni pregi di uno dei tanti modelli del passato e cercando così di recuperarli. I criteri di cui al punto 2 potrebbero essere garantiti prevedendo che la scelta delle sedi sia fatta dai vincitori seguendo rigorosamente l’ordine di graduatoria ed escludendo la possibilità di scegliere una sede alla quale si risulti “legati”. Credo che per quasi tutti i casi-limite che potrebbero rendere problematica l’applicazione della regola, così come per i trasferimenti, si possano immaginare soluzioni ragionevolmente efficaci. Sarebbe ovviamente necessario prevedere anche che non possano far parte della commissione docenti in servizio presso uno degli atenei interessati.
5) Ritengo indispensabile alleggerire la procedura prevista per la ASN, anche per rendere più sottile la continuità con una logica di tipo “concorsuale”, che rafforza la percezione, per quanto formalmente ingiustificata, di un “diritto” al passaggio di ruolo (potrebbe essere considerata sufficiente una valutazione sintetica del curriculum sulla base di alcuni parametri e criteri definiti in modo non rigido e la valutazione di un numero limitato di pubblicazioni). Le soglie previste per i commissari sono un ulteriore fardello burocratico che crea più confusione che benefici e dovrebbero essere eliminate. Tutte le commissioni, comprese quelle di cui al punto 4, dovrebbero essere nominate con un sorteggio integrale dalla lista dei professori ordinari (e degli associati per i concorsi che consentono l’accesso alla loro fascia), con esclusione automatica dei sorteggiati dalla possibilità di far parte di altre commissioni per un periodo di 3/4 anni e da quella per la ASN per i due sorteggi successivi (anche in caso di rifiuto e sempre che i numeri dei relativi settori scientifico-disciplinari e concorsuali lo consentano). L’abilitazione di seconda fascia resterebbe naturalmente, come suo indispensabile requisito, solo in vista del passaggio dalla posizione corrispondente all’attuale RTDb a professore associato.
6) Va introdotto l’obbligo di una prova didattica almeno per tutte le procedure comparative che consentono l’accesso alla fascia degli associati, prevedendo la possibilità di una short list nel caso di un elevato numero di candidati e, compatibilmente con le norme in vigore, la trasmissione in modalità streaming in tutte le sedi interessate. Il giudizio finale dovrebbe includere tre punteggi: a)sulle pubblicazioni (non meno del 50% del totale) b)sulla prova didattica (non meno del 20% del totale) c)sugli altri elementi del curriculum (non più del 20% del totale). Per i posti di professore ordinario, nel caso non si optasse per lo svolgimento anche in questo caso di una prova didattica, le percentuali per pubblicazioni e ricerca potrebbero essere, indicativamente, del 70% e del 30%. È importante evitare che la capacità di “costruire” un curriculum possa prevalere sulla qualità della ricerca e la capacità di insegnare.
I professori hanno probabilmente molte responsabilità per i “problemi” legati ai concorsi e che attirano con frequenza crescente l’attenzione dell’opinione pubblica, per non parlare dei giudici. È però lecito domandarsi se non siano almeno indotti in tentazione proprio da alcune delle regole che dovrebbero aiutarli ad allontanarsi da essa. Ecco perché ha ragione il ministro Manfredi e mi aspetto azioni coerenti con l’obiettivo dichiarato. Abbiamo davvero bisogno di regole semplici e rigore del merito.