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No al manuale Cencelli della ricerca

Intervista a Guido Martinelli. Il direttore della Scuola internazionale di studi avanzati di Trieste teme che le alleanze fra atenei per ottenere i fondi saranno basate sulle quote disponibili e non sul merito dei progetti. E poi un appello: meno burocrazia

20/03/2012
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l'Unità

Giovanna Dall'Ongaro

Se valesse il criterio del «purché sene parli», il ministro Francesco Profumo potrebbe ritenersi soddisfatto: le novità che interessano il settore della ricerca non sono certo passate sotto silenzio. Il bando Prin 2010 (Programmi di Ricerca di Interesse Nazionale), con i nuovi e macchinosi criteri per la distribuzione di un finanziamento di 175 milioni di euro alla ricerca di base, tiene ancora impegnati in complesse analisi tanto i blogger pluridiplomati quanto i professori universitari. L’imponente macchina della Valutazione della Qualità della Ricerca, in procinto di partire sotto la guida dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), ha puntati addosso gli occhi dell’intero mondo accademico che torna, per la prima volta dopo sette anni, dalla parte di chi viene esaminato e teme il voto in pagella. Bene o male, di entrambe le inizia tive si è discusso molto. E vale la pena continuare a farlo perché da queste dipende il futuro della ricerca nel nostro paese. Così abbiamo chiesto a Guido Martinelli, direttore della Scuola Internazionale di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, istituto di eccellenza, il primo in Italia ad avere offerto il titolo di PhD, di commentare l’attuale politica della ricerca e suggerire eventuali cambi di rotta. Professor Martinelli, secondo lei il governo riconosce il ruolo della ricerca come motore della crescita economica? «Sono convinto di sì, perché una squadra di professori universitari non può sottovalutare il peso della ricerca. Anche se finora di segnali concreti non se ne sono ancora visti. Ma aspettiamo fiduciosi». Quale segnale si aspetta? «Una sostanziosa riduzione di assurde incombenze burocratiche, che è ilmale peggiore che affligge la ricerca in Italia. Non è ammissibile, per esempio, che i ricercatori vincitori di prestigiosi grant europei vadano incontro a mille ostacoli per lavorare in Italia.Quando chiesi a una quarantina di colleghi, vincitori di grant come me, di firmare una lettera al ministro precedente con la minaccia (provocatoria) di trasferire i nostri soldi all’estero, perché qui non avremmo potuto spenderli, molti di loro mi confessarono di avere già spostato i finanziamenti in laboratori in Germania, Svizzera, Francia. Questo, pur di non passare il tempo a risolvere beghe burocratiche, facendo lo slalom tra regole concepite con il pallottoliere da qualcuno, che sembra divertirsi a complicare la vita a chi cerca di fare della buona ricerca». Ifinanziamenti europei di cui lei parla, inoltre, sono difficili da ottenere. Almeno per gli italiani che dal VII Programma Quadro hanno ricavato solo poche briciole. Per non perdere anche la prossima opportunità nel 2014, gli 80 miliardi di euro stanziati dal programma Horizon 2020, il ministro ha previsto una sorta di “allenamento in casa”, i Prin, per imparare a lavorare in squadra e mettere in piedi grandi progetti. Le chiediamo, sono una buona palestra? «Condivido le intenzioni, ma il metodo di allenamento è sbagliato. La nuova regola dei Prin 2010 che prevede per ogni università un tetto massimo di progetti da poter presentare ha effetti distorsivi: un’università a cui è stato assegnato un limite di 20 progetti e se ne ritrova 60, tutti validi, dovrà buttare a mare 40 buone idee solo perché sono in esubero. Il ministro sostiene che così le università saranno spinte ad allearsi. Peccato però che l’unico criterio che guiderà la scelta del partner sarà quello delle quote ancora disponibili e non del merito del progetto. Si assisterà a un inevitabile mercato delle vacche con la compravendita di ricercatori in base ai posti liberi. Si tratta di regole da manuale Cencelli che di fatto renderanno possibile presentare le domande solo in base al numero delle teste invece che alla valutazione di merito scientifico. Una prassi sconosciuta al resto del mondo». È giusto puntare tutto sui progetti di grandi gruppi? «I grandi progetti di ricerca vanno sostenuti,ma non bisogna trascurare un tipo di ricerca più di nicchia, condotta da pochi individui con idee innovative. Altrimenti si rischia di finanziare solo il conformismo scientifico. Perché esiste la Big Science che si fa al Cern con migliaia di ricercatori, ma esistono laboratori di poche persone dove si può scoprire il grafene e vincere il Nobel». «Continuiamo a ripetere che i nostri scienziati sono molto apprezzati all’estero. Quanto noi, invece, apprezziamo gli stranieri? «La qualità dell’insegnamento delle nostre università è certamente molto alta e per questo i nostri studenti ottengono posti di ricerca all’estero. Ma ciò non basta per attirare studenti e ricercatori stranieri in Italia. Se mancano gli alloggi per ospitare gli studenti anche il più prestigioso ateneo perde il suo fascino agli occhi di un dottorando con una borsa di 1.000 euro. In Inghilterra,ma anche alla Normale di Pisa, gli studenti stranieri sono invogliati a rimanere perché ci sono strutture e servizi. Lo sappiamo bene alla Sissa che nasce con vocazione internazionale, dove è straniero circa il40%degli studenti e il 10% dei docenti e dove le lezioni sono tutte in inglese». A proposito di qualità delle università, sta per partire la grande valutazione. Cosa si aspetta dal test sul mondo accademico? «Come accade in altri Paesi, se un dipartimento di Fisica viene classificato come A dovrebbe ricevere un finanziamento di 100, come B di 50 e come C nulla. In poche parole il merito deve essere premiato e le risorse concentrate. Nessun Paese della taglia dell’Italia può permettersi decine e decine di dipartimenti di Fisica, vanno mantenuti solo quelli dove la ricerca è a livello internazionale. Non credo che da noi sia possibile,come è stato ipotizzato, distinguere gli atenei in quelli dediti alla didattica e quelli dediti alla ricerca, come accade nei Paesi anglosassoni dove c’è sia l’university che il college. Non è con le etichette che si potranno classificare le università. Ma con una corretta valutazione della qualità della ricerca, a cui deve seguire una efficiente distribuzione dei fondi. Confido che l’Anvur, dove lavorano persone che stimo moltissimo, riuscirà a far funzionare un simile sistema premiale ».●  

 


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