No ai licenziamenti sileziosi. La protesta del mondo precario
Il blocco del turn over e il taglio della spesa si abbattono sui lavoratori a tempo determinato: sono già 30 mila quelli
Mariagrazia Gerina
Il corteo del Pubblico impiego che attraverserà Roma, oggi, lo apriranno loro. Perché: «L’etat c’est moi». Sono loro lo Stato. Come recita l’appello che hanno scritto in vista della manifestazione di oggi. Impiegati e medici. Ricercatori e infermieri. Impiegati a tempo determinato e assistenti sociali. Ispettori del lavoro, persino. Tutti precari. Precari pubblici. Un popolo di quasi quattrocentomila persone, se conti anche gli insegnanti precari, i collaboratori scolastici, le maestre d’asilo. Sono loro che mandano avanti un bel pezzo di quello Stato fatto di ospedali e di uffici, di asili e di pronto soccorso. Esono sempre loro la prima fila davanti alla crisi. Che il governo ha deciso di tagliare. Tanto non c’è neppure il disturbo di doverli licenziare. Dimezzare la spesa per i precari del pubblico impiego. Questa è l’indicazione di rotta. Prima ancora di cominciare a guardare in faccia la crisi, Tremonti aveva già deciso, decreto legge 88 del 2010, che lo Stato non poteva più permettersi di pagare tutti quei precari. La fotografia scattata nel 2009, l’ultima basata su dati ufficiali, ne coglie d’un colpo 94.936 che lavorano con contratti a tempo determinato o con contratti di formazione lavoro nel pubblico impiego, uno dei gruppi più numerosi sono i 33.184 dipendenti del servizio sanitario nazionale, medici, infermieri, impiegati. A loro, in quella fotografia, si aggiungono i 32.426 lavoratori interinali e Lsu, dipendenti di società che lavorano in appalto per la pubblica amministrazione. E poi ci sono i Co.co.co. La legge Biagi li ha cancellati, tasformandoli in contratti a progetto, ma nel pubblico ci sono e come. Nel 2009, almeno, ce ne erano 48.649. E ancora ci sono gli incarichi di studio, di ricerca, di consulenza: qui il conto non è sulle persone ma sui contratti, 67.670 stipulati nel corso del 2009. La stima è che, tolti i precari della scuola, i precari del pubblico impiego siano circa 240mila. La scuola di precari tra docenti e Ata ne conta altri 140mila. La somma fa: 380mila precari. «Siamo quelli che negli ultimi decenni hanno contribuito a tenere in piedi scuole, università, servizi pubblici. E siamo quelli che vogliono continuare a farlo», rivendicano loro. Lo Stato visto da via XXSettembre e da Palazzo Vidoni ha deciso di andare da tutt’altra parte. L’ultimo percorso di stabilizzazione all’interno del pubblico impiego è finito con l’anno 2008/2009. E ormai - spiega Michele Gentile, responsabile dei lavoratori pubblici della Cgil - l’obbiettivo prima ancora della stabilizzazione, è mantenere tutti in servizio. E non è che dall’altra parte si apra la strada ai concorsi. La linea dura decisa dal governo dice che il turn over è bloccato. E che solo 20 ogni 100 dei lavoratori che se ne vanno in pensione saranno sostituiti. Ma dall’altra parte, appunto, dice anche che è chiusa la strada ai precari. Perché bisogna dimezzare la spesa destinata a coprire i loro magri compensi. Dimezzare la spesa significa non lascia alternative. Significa che non ci sono più i soldi per pagare tutti. E che i precari che tra l’altro ora coprono i buchi lasciati scoperti dal mancato turn over verranno decimati. I licenziamenti silenziosi sono già iniziati. Si stima che siano circa 30mila i precari del pubblico impiego che non si sono visti rinnovare il contratto. Arrivederci, e neppure grazie. E lo stesso destino toccherà a breve ad altri 40mila. Una strage silenziosa. Che oggi farà sentire in piazza la sua voce. Ma la questione non riguarda solo i lavoratori. Se è vero che loro sono lo Stato, che fine fa quello Stato fatto di scuole, pronto soccorso, asili, ospedali? La loro “dipartita” dal pubblico impiego significa che servizi essenziali potrebbero non essere più garantiti. I pronto soccorso, per esempio. Oppure la Croce Rossa. E davanti ci sono altri 7 miliardi di tagli che gravano sui ministeri. La linea del Piave è che nessun taglio più ricada sui precari. Ma quello è solo un argine da porre davanti a uno Stato che ha detto: «alla crisi economica si risponde con meno pubblico». «Noi - rispondono i precari - diciamo altro: che ci vuole più pubblico, più welfare, più scuola, più università ».Un Paese che non lasci sole le persone. E che non sprechi i suoi talenti. Programmazione di assunzioni nei settori strategici «a partire da coloro che hanno già superato le prove d’accesso, vincendo i concorsi o risultando idonei », stabilizzazione, basta discriminazioni. Questo rivendicano i precari. È chiedere troppo per chi tutti i giorni regge lo Stato sulle proprie spalle? ❖