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Messaggero-VERO CAPITALE, I PROFESSORI

VERO CAPITALE, I PROFESSORI di FRANCO FERRAROTTI PIÙ che una sorpresa, è una conferma. Il Times Higher Education Supplement pubblica una ricerca condotta su scala mondiale intorno al...

09/12/2004
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Il Messaggero

VERO CAPITALE, I PROFESSORI
di FRANCO FERRAROTTI
PIÙ che una sorpresa, è una conferma. Il Times Higher Education Supplement pubblica una ricerca condotta su scala mondiale intorno al valore delle università. Al primo posto si colloca la Harvard University di Boston; al 162° posto l'Università "La Sapienza" di Roma. E' chiaro che non basta essere la più densamente popolata università del mondo per scalare la graduatoria. Almeno in questo campo, il numero non è garanzia di eccellenza. Del resto, non lo è neppure un venerando passato. L'Università di Bologna, forse il più antico fra tutti gli atenei, è di qualche gradino più sotto. Strappa solo il 186° posto. Naturalmente,non c'è graduatoria o tipologia che non si presti a valutazioni controverse. I criteri in base ai quali la classifica è stata stilata sono cinque: l'opinione degli stessi accademici scelti, c'è da supporre, fra i più autorevoli; il rapporto docenti-studenti; la percentuale del personale accademico e quella degli studenti provenienti da altri paesi; il numero delle citazioni nelle pubblicazioni scientifiche. Di questi criteri o indicatori, il meno oggettivo e quindi il più criticabile è il primo. Con tutta la fiducia che si può nutrire in stagionati professori, l'affetto per la loro alma mater è in generale troppo grande per non giocare loro qualche scherzo e non farli cadere nella classica fallacia del Cicero pro domo sua . Ma gli altri indicatori sono più difficili da smontare. Hanno la durezza dei dati di fatto.
Sono questi dati di fatto che ci aiutano a capire perché le università americane brillano in questa graduatoria. Non c'è solo Harvard. Si pensi, nella stessa regione, al Mit ( Massachusetts Institute of Technology ), e del resto non dovrebbe fare meraviglia che nelle prime dieci posizioni vi siano altre sette università americane, le famose Ivy League universities , o università dell'edera rampicante sui loro anneriti muri goticheggianti, da Princeton a Chicago, dalla Columbia alla New York University e a Stanford. Due università inglesi, Oxford e Cambridge, non sfigurano. Nelle prime trenta vi sono anche due università francesi, l' École Polytechnique e la École Normale Supérieure , seguite però a ruota lo posso dire essendovi "directeur d'études" dal 1978 dalla Maison des Sciences de l'Homme e da quella fucina della classe dirigente francese che è l' École Nationale d'Administration .
Ma come mai le università americane primeggiano in maniera così schiacciante? Una prima distinzione: non tutte. Le grandi università, templi di eccellenza e di premi Nobel, sono tutte private, ricevono ogni anno miliardi di dollari da centinaia di alumni o ex studenti che costituiscono il nerbo, in tutti i campi, da quello economico a quello politico, culturale, ecclesiastico (gran parte di queste università nascevano come Divinity Schools o scuole di teologia) della classe dirigente americana. Sono università ricche, costose, dotate di servizi sociali e scientifici di prim'ordine, continuamente aggiornati. Non solo: lo studente americano lo posso dire per esperienza diretta considera il professore come un investimento. Lo studente italiano invece il professore, se può, lo evita; lo vede a distanza a lezione; lo incontra per gli esami. Lo studente americano lo spreme, lo tallona; può anche farlo a cuor leggero perché il tasso professori-studenti è favorevole; una classe raramente supera i venti studenti, mentre a Roma i professori della "Sapienza" fanno lezione nei cinematografi. Il rapporto diretto, personale, a Roma, è difficile, spesso impossibile.
Non è solo questione di buona volontà o di professori assenteisti (ci sono anche questi). Mancano gli spazi. Per troppo tempo sono stati fermi i concorsi. L'età media dei professori sfiora i sessant'anni. Di qui, anche, la caduta per le università europee di un criterio-base fondamentale: la capacità di attrarre studenti e docenti da altri paesi. Si è creduto di democratizzare l'università abolendo la rigidità dei piani di studio e aprendo le porte ai diplomati degli istituti tecnici, ai ragionieri e ai geometri. Bene. Ma volere una università di massa, senza servizi sociali (specialmente per studenti fuori-sede, stranieri, ecc.) e senza servizi scientifici (biblioteche, laboratori) di massa significa avere una università paradossalmente più oligarchica e meno democratica della vecchia università di élite. In queste condizioni, aggravate da professori che sono spesso solo "gangster accademici", volere l'università per tutti può voler dire non averla più per nessuno.
Tutto nero, dunque, l'avvenire universitario per l'Italia? Non proprio. Piccoli gruppi, che hanno scelto lo studio e la cultura come progetto di vita e non come piattaforma per fare affari, continuano a lavorare e a produrre buoni risultati. E' quello che amo chiamare il "metodo di Via Panisperna". Ma intanto è vero che, lungi dall'attrarre studenti e professori stranieri, andiamo perdendo alcuni fra i giovani migliori, in tutti i campi. E pensare che un Paese ai nostri antipodi, l'Australia, ha ben sei atenei nei primi cinquanta.


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