Messaggero: Tornare ai contenuti, la sfida della scuola
Giorgio Israel
NEI GIORNI passati si è parlato di una “valanga” di 5 in condotta e di insufficienze nella scuola. Ma è proprio così? Per i 5 in condotta non abbiamo termini di paragone ma concordo con chi ha osservato che 35 mila discoli su due milioni e mezzo di studenti è un numero incredibilmente basso che non dimostra che la scuola è un paradiso, bensì che gli insegnanti non riescono a imporre la disciplina.
Per quanto riguarda le insufficienze, pare che siano aumentate rispetto all’anno scorso. Ma si tratta di aumenti modesti, dell’ordine di un’unità percentuale o poco più, che dicono poco, sia in quanto indice di un aumento di rigore disciplinare degli insegnanti (che sarebbe cresciuto in misura irrilevante) che in termini di peggioramento del rendimento degli studenti: il fatto che le insufficienze nelle lingue straniere abbiano superato quelle in matematica soltanto perché entrambe hanno subito un’oscillazione di un’unità attorno a una percentuale del 60% è privo di significato.
In conclusione, sono dati che non indicano alcuna apprezzabile crescita di rigore da parte degli insegnanti sia sul piano della condotta che su quello disciplinare e non dicono nulla di decifrabile per quanto riguarda il rendimento degli studenti.
Forse sarebbe il caso di affrontare la valutazione dello stato della scuola italiana al di fuori dell’ossessione per le cifre e per le percentuali. Magari fosse soltanto una mania nazionale, ereditata dal Duce che ne era talmente affetto da consultare continuamente statistiche e tabelle e mantenere un appuntamento fisso settimanale col presidente dell’Istat, Corrado Gini. Purtroppo è una mania dilagante. Viviamo nell’era della metrica. Tutto attorno a noi viene standardizzato, quantificato e misurato, osservano in un appello volto a criticare questa tendenza eccessiva i direttori delle maggiori riviste internazionali di storia della scienza.
Per quanto riguarda un classico tema di misurazione, la valutazione della ricerca, le massime istituzioni internazionali competenti in numeri la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics hanno redatto un rapporto in cui criticano severamente l’uso e l’abuso dei dati.
Nel rapporto si critica anche l’ingenua pretesa di ottenere con i numeri valutazioni semplici e oggettive: i numeri sembrano oggettivi ma la loro oggettività può essere illusoria. I numeri affermano con forza questi istituti non sono intrinsecamente superiori a giudizi ponderati.
Sono consapevole di aver menzionato in altre occasioni questa autorevole affermazione che si applica a tante situazioni. Prometto di continuare a farlo fino a che troppi studiosi nel campo delle scienze umane continueranno a preferire a serie analisi qualitative l’ossessione per la statistica, come se nascondersi dietro le cifre conferisse serietà anche a conclusioni manifestamente infondate. “Bisogna seguire un approccio scientifico” si ripete, magari propinando rilevazioni statistiche in forme che non hanno nulla di scientifico, nulla di razionale e persino nulla di sensato.
La scuola italiana va male, comprese le elementari, e non servono numeri per constatarlo, anche se pure le rilevazioni quantitative più recenti lo confermano. Stupisce piuttosto che studiosi che dovrebbero essere attenti ai contenuti si appassionino a dubbie manipolazioni di dati invece di considerare l’unico fatto oggettivo che testimonia in modo inoppugnabile questa crisi: quel che si insegna a scuola e come lo si insegna. E per verificare cosa e come si insegna esistono indicatori di contenuto molto più attendibili di incerte manipolazioni numeriche: i programmi, che si desumono dalle “indicazioni nazionali”, i libri di testo circolanti e l’esperienza sul campo.
Non è possibile compiere una disamina in un articolo di giornale: occorrerebbe farlo in una pubblicazione apposita in modo da fornire materiali più oggettivi delle chiacchiere pseudoscientifiche. Si potrà allora constatare quale degrado abbiano subito i contenuti dell’insegnamento nell’ultimo trentennio.
Dalla matematica alla storia, dalla geografia alla fisica, è l’immagine di un autentico disastro culturale. E quanto ai libri di testo non si vuol dire che non ne circolino di decenti, ma per un paese che ha formato intere generazioni sui libri di matematica di Enriques e Amaldi tra i migliori del mondo la lettura di certi manuali fornisce soltanto la prova che i loro autori, lungi dal pretendere di insegnare agli altri, avrebbero bisogno di un periodo di studio intensivo e di esami volti ad accertare la loro comprensione dei concetti di base. Ci si può gingillare quanto si vuole con le cifre, ma il ritardo esasperante con cui i bambini arrivano a manipolare i calcoli più elementari, il modo confuso e fuorviante con cui vengono introdotti gli algoritmi di calcolo, l’uso di definizioni assurde, frutto della fantasia di qualche didatta, gettano un’ombra inquietante sulle nostre scuole elementari.
Coloro che predicano che tutto va bene, se la cavano dicendo che la colpa è dell’insegnamento “ex-cathedra” e “trasmissivo”. Ma la scuola italiana ha conosciuto fino a una trentina di anni fa soltanto insegnanti formati in modo puramente “trasmissivo” e senza la formazione al “saper insegnare”. Eppure era una delle scuole migliori del mondo. Quindi il ragionamento fa cilecca. Così come non funziona l’alibi secondo cui la formazione degli insegnanti corredata di competenze didattico-pedagogiche è recente e non se ne sono visti ancora gli effetti virtuosi.
In verità, l’ideologia delle “teste ben fatte” piuttosto che piene è penetrata nella scuola italiana da un trentennio ed è divenuta un luogo comune ossessivo che ormai informa il linguaggio degli insegnanti come una preghiera ripetuta meccanicamente ogni mattina. Non si vuol certamente negare l’utilità che possono avere quelle competenze, ma sarebbe saggio considerare gli effetti negativi che ha avuto la loro somministrazione in dosi da cavallo da parte di persone dedite a fabbricare teste vuote mal fatte: per esempio predicando che piuttosto che studiare la geografia occorre “costruire le proprie geografie”. Questi effetti sono sotto gli occhi di chiunque voglia esaminare i contenuti attuali dell’insegnamento anziché manipolare le cifre per esorcizzare il disastro o imputarlo ad altre cause.