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Messaggero: Tagliare i baracconi, salvare il merito

Università

16/09/2010
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Il Messaggero

di GIOVANNI SABBATUCCI
ANCORA una volta è toccato al Presidente della Repubblica ricordare al Paese e alla classe dirigente una verità che dovrebbe essere presente a tutti: un Paese ha detto in sostanza il capo dello Stato parlando ai ragazzi convenuti al Giffoni Film Festival non può andare lontano senza adeguati investimenti nella cultura e nella ricerca. Bisogna investire con criterio, individuare le priorità, evitare gli sprechi, premiare, come prescrive la Costituzione, “i capaci e i meritevoli”. Ma non ci si può limitare al taglio indifferenziato o al semplice blocco di risorse già scarse.
Il monito presidenziale cade, non a caso, in un momento di forti e diffuse proteste. Protestano gli studenti e i precari della scuola, i ricercatori universitari e i “baroni”: tutti lamentano, pur con argomenti e toni diversi, gli effetti della spietata lesina governativa non solo sulle prospettive di sviluppo e di carriera, ma anche sulle più banali incombenze del lavoro quotidiano. Va detto che molte delle categorie che oggi protestano hanno, prese collettivamente, parte non piccola negli errori e nelle storture che hanno portato alla situazione attuale. I professori universitari (categoria alla quale appartengo) ne hanno forse più di tutti, se non altro perché l’Università è una istituzione sostanzialmente “autocefala”, cioè governata e gestita dai suoi stessi membri, con responsabilità direttamente proporzionale al grado. E negli ultimi decenni il corpo docente ha dedicato energie e risorse soprattutto alla riproduzione di se stesso e alla moltiplicazione delle sedi, senza vincoli di programmazione nazionale o di piante organiche: col risultato di intasare i ruoli, di bloccare il turn-over, di impegnare in stipendi la quasi totalità della spesa degli atenei. Non sono esenti da responsabilità nemmeno gli insegnanti medi, che si sono opposti vigorosamente a qualsiasi procedura di selezione basata sull’accertamento delle competenze. Né possono dirsi incolpevoli gli utenti, ovvero gli alunni e le loro famiglie, sempre pronti a protestare contro qualsiasi innovazione volta ad accrescere il tasso di difficoltà e di rigore negli studi.
Ma ora i nodi sono venuti al pettine. Nella scuola, la massa dei precari non ha alcuna probabilità di essere assorbita dal sistema nemmeno in tempi lunghi.
Nell’università si rischia di passare in pochi anni dal sovraffollamento al deserto della docenza: l’ondata di pensionamenti e prepensionamenti già in atto (anche perché a nessuno piace essere pagato di meno per lavorare di più) lascerà scoperti insegnamenti essenziali e interi settori disciplinari, senza la possibilità di adeguati rimpiazzi (non ci sono i soldi per le chiamate e per le promozioni interne). E intanto, negli istituti scolastici e nei dipartimenti universitari, mancano posso dirlo per esperienza diretta i mezzi per la carta e gli inchiostri delle stampanti e, quel che è peggio, per gli acquisti di laboratori e biblioteche, così condannati a una rapida obsolescenza.
Certo, le condizioni della finanza pubblica non consentono oggi alcun lassismo. I flussi di spesa, che per loro dinamica interna tendono naturalmente a crescere a regime, devono essere tagliati o almeno bloccati. Ma è a questo punto che la politica deve fare la sua parte, operando le scelte necessarie per non compromettere in modo irreversibile il futuro del Paese. La qualità di una classe dirigente a questo ha alluso il presidente Napolitano quando ha citato l’esempio virtuoso della Germania si misura sulla sua capacità di fissare un ordine di priorità, puntando sui settori strategici (che non sono solo quelli più direttamente legati alle esigenze dell’apparato produttivo), di premiare il merito e l’eccellenza sulla base di adeguati sistemi di valutazione. La cura dei tagli “orizzontali”, ossia indiscriminati (quello che gli economisti chiamano “affamare la bestia”), e dei blocchi basati sullo sciagurato criterio della “spesa storica” è più facile da applicare: ma può uccidere l’organismo che si intende curare o, nel migliore dei casi, limitarsi a conservare l’esistente. Non è di questo che il Paese ha bisogno.


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