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Messaggero: Ricerca, cosa manca al piano di rilancio

IL PROGRAMMA NAZIONALE DELLA RICERCA

25/01/2010
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Il Messaggero

Dopo molti proclami, riunioni, tavoli di lavoro, gruppi di studio e pubblicazioni apocrife, finalmente è disponibile sul sito del Ministero che si occupa anche di ricerca il Programma nazionale della Ricerca (PNR). Si tratta di un documento corposo, ma leggibile in tempi ragionevoli. La prima sensazione è quella di un piano che si occupa puntualmente dei vari aspetti della ricerca scientifica, ma ignora completamente alcuni problemi fondamentali dalla cui soluzione dipende il futuro della ricerca italiana assieme a quello dei Paesi con cui siamo in competizione e al tempo stesso in collaborazione nell’ambito dell’Unione Europea. Per venire al sodo, manca una discussione su chi governa la ricerca scientifica in Italia. Non esiste una mappa di tutti gli enti pubblici che finanziano la ricerca: sono molti, ma non identificati, a partire dai vari Ministeri per arrivare alle Regioni e in qualche caso perfino alle Provincie e ai Comuni. Come è possibile fare un PNR senza sapere quanto spende ciascuna delle citate strutture e con quali finalità e con quali metodi? Qual’è la sede in cui le varie esigenze settoriali di ricerca si integrano e vengono coordinate? Il PNR dice solo timidamente che potrebbe essere il MIUR, ma sono tutti d’accordo? Forse la sede più adatta potrebbe essere la Presidenza del Consiglio che si serve del MIUR per gli aspetti amministrativi. Manca completamente una netta separazione fra la politica della ricerca e l’attuazione della ricerca. La prima dovrebbe indicare - e qualche tentativo molto generico in questo senso è presente nel PNR - quali sono le priorità di ricerca per il Paese, facendo delle scelte che sono di stretta natura politica e allocando le necessarie risorse in modo dettagliato e cioè quanto è disponibile per ogni priorità. Un lavoro non indifferente che richiede analisi accurate di ciò che offre la ricerca italiana di quali siano le richieste delle attività produttive, dall’agricoltura all’industria. La fase attuativa non può essere affidata a strutture burocratiche; deve essere realizzata da tecnici esperti. In altre parole come suggerito dal gruppo 2003 (www.lascienzainrete.it) è necessaria la realizzazione di una Agenzia Italiana per la Ricerca Scientifica (AIRS) che non deve essere un altro carrozzone, ma una struttura agile e poco costosa in cui vengano “comandati” ricercatori pubblici che abbiano mostrato capacità scientifiche e manageriali. Spetta all’AIRS recepire le priorità proposte dal Governo, traducendole in bandi di concorso con tutto il corollario di accesso generalizzato, peer review, monitoraggio e finanziamento realizzando quello che il PNR definisce come ricerca di base, generata dai ricercatori, ricerca traslazionale o finalizzata a ricerca industriale. Senza questa struttura è impossibile oggi mettere in pratica tutti i vari livelli di governance elaborati dal PNR; come pure sembra impossibile interagire a livello europeo. Le varie sfaccettature della ricerca europea che includono non solo i bandi per i progetti di ricerca (FP7) ma anche i programmi di collaborazione per le infrastrutture (ESFRI), i programmi comuni (JCP) e quelli limitati a pochi Paesi (ERA-NET) per citare alcuni esempi, non potranno vedere un’adeguata presenza della ricerca italiana senza la realizzazione di strutture come l’AIRS. Basti ricordare che l’Italia paga il 13,5 percento dei programmi e recupera solo il 9 percento, secondo quanto riporta lo stesso PNR.
L’Italia è in grande difficoltà per quanto riguarda la ricerca e il PNR non risparmia un’analisi critica, anche se l’utilizzo delle percentuali non permette di capire la gravità della situazione che verrebbe resa più evidente riportando le cifre assolute e normalizzandole per il PIL o per milioni di abitanti. L’orgoglio spesso sottolineato ricordando che la spesa pubblica per la ricerca in Italia è comparabile a quella degli altri Paesi Europei, essendo intorno allo 0,55 percento del PIL (conto lo 0,65 della media dai Paesi Europei, ma l’uno percento dei Paesi più “virtuosi”) non è sostenibile dei dati di fatto. Anzitutto il PIL dei Paesi con il livello di popolazione analogo all’Italia è ben superiore a quello italiano; in secondo luogo circa lo 0,10 percento del PIL (la differenza con la media dei Paesi europei) non è una cifra insignificante, superando largamente il miliardo di euro; e in terzo luogo non è sostenibile che il 50 percento della spesa universitaria sia destinato alla ricerca e quindi vada incluso nello 0,55 percento citato più sopra. Infatti la stragrande maggioranza della spesa universitaria serve per pagare stipendi. Inoltre bisogna distinguere tra allocazioni ed effettivi stanziamenti: basti pensare che solo una parte degli scarsi finanziamenti del MIUR riguardanti il 2008 e il 2009 viene distribuita in questi giorni!
Il PNR permette di registrare alla fine una sorpresa non certo piacevole. In tutto il testo si fa appello a una mitica tabella n. 2 che dovrebbe darci un’idea di quali sono le risorse effettive che il PNR attribuisce in frazioni percentuali alle singole azioni a favore della ricerca. Il problema è che la tabella 2 non c’è ….. è ancora da definire!
Silvio Garattini!


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