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Messaggero: Ricerca. Basta con i criteri opachi

La via del merito

20/08/2009
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Il Messaggero

di GIOVANNI SABBATUCCI

IL DATO è sempre lo stesso, quello che ci relega agli ultimi posti delle classifiche europee, assieme a Grecia e Portogallo. Anzi peggiora lentamente ma inesorabilmente: lo Stato italiano spende per la ricerca un po’ meno dell’uno per cento del suo Pil, contro il due della Francia e il quattro della Svezia. Un dato che, se proiettato sui tempi lunghi, non promette un futuro roseo né al Paese nel suo insieme né ai suoi cittadini di domani. Ma non basta: quelle risorse scarse le impieghiamo male, con criteri poco limpidi e poco meritocratici. Ce lo ricordava ieri, su queste colonne, un ampio servizio di Anna Maria Sersale. E ce lo ricordano con impressionante frequenza le tante storie di giovani ricercatori costretti a emigrare all’estero per veder riconosciuti i loro talenti, o semplicemente per spuntare una retribuzione dignitosa: il caso della coppia Iavarone-Lasorella è solo l’ultimo di una lunghissima serie. Tutto ciò configura per il sistema-Italia un salasso di energie e di saperi, privo per giunta di quelle ricadute positive in termini economici (le rimesse dall’estero, l’allentamento delle tensioni sul mercato del lavoro) che vennero all’economia nazionale da un fenomeno umanamente ben più tragico e quantitativamente imponente come la grande emigrazione di fine Ottocento-inizio Novecento.
Il secondo dato quello relativo all’opacità delle procedure di valutazione e dunque alla qualità della spesa è probabilmente più grave del primo (l’esiguità della spesa stessa) e di certo più difficile da correggere. Se infatti alla carenza di risorse è sempre possibile, almeno in teoria, rimediare con un atto di volontà politica, specie se in presenza di una congiuntura favorevole e di un allentamento dei vincoli di finanza pubblica, il cattivo uso di quelle risorse rinvia a fattori culturali in senso lato. A incrostazioni familistiche, a logiche baronali, a degenerazioni clientelari, a pratiche copertamente redistributive (come i finanziamenti a pioggia assegnati a singole micro-ricerche per coprire piccole spese o per retribuire impropriamente qualche precario magari meritevole): insomma a mentalità e comportamenti diffusi che non possono essere sradicati in virtù di un dispositivo di legge.
Qualcosa però è possibile fare, e qualcosa si è cominciato a fare. L’annunciato ritorno ai concorsi nazionali per il reclutamento della docenza universitaria promette quanto meno un’attenuazione delle logiche localistiche. Le procedure di valutazione delle pubblicazioni scientifiche e dei progetti di ricerca (e dell’intera attività di atenei, dipartimenti e centri di ricerca) si stanno imponendo, anche se con lentezza, in molte discipline. Sono, occorre dirlo, sistemi altamente imperfetti. Spesso si prestano a equivoci e distorsioni nei giudizi. Sono anch’essi soggetti a inquinamenti e condizionamenti di tipo personale (del resto bisogna ricordare che l’oggettività assoluta è irraggiungibile, soprattutto in ambienti ristretti come sono spesso le comunità scientifiche, dove tutti conoscono tutti, e che una componente di cooptazione è fatalmente legata a ogni forma di selezione interna a un gruppo). Ma una procedura di valutazione imperfetta è sempre preferibile all’assenza di qualsiasi parametro, alla pura discrezionalità del giudizio personale, che può essere dettato sia da sincera convinzione sia da moventi inconfessabili (più spesso da una miscela dei due elementi). Un giudizio errato o aberrante diventerà tanto più difficile, o più costoso in termini di immagine, quanto più sarà obbligato a manifestarsi pubblicamente, a confrontarsi con altri giudizi pubblici, a uniformarsi ad alcuni essenziali parametri stabiliti a priori dalla comunità degli studiosi.
Ci vorrà del tempo. Ma non sarà tempo sprecato se consentirà al mondo della ricerca scientifica italiana di farsi trovare preparato nel momento, auspicabilmente non troppo lontano, in cui il flusso dei finanziamenti pubblici e privati dovesse gradualmente tornare a crescere. Neanche in un ipotetico tempo di vacche grasse il Paese potrebbe permettersi di sprecare le risorse da investire nel proprio futuro o di esportare senza contropartita i suoi talenti migliori.

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