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Messaggero: Poveri, ma bravi: così i cervelli italiani accettano la sfida per battere il cancro

Molti costretti a partire, ma c’è chi rientra: «Devo dire grazie a una lotteria

07/11/2009
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Il Messaggero

di CARLA MASSI

ROMA - Ha vinto al Superenalotto ed è riuscito a tornare in Italia dopo oltre dieci anni di lavoro all’estero. Quattro in Germania e sei negli Stati Uniti. A studiare biologia molecolare, a “leggere” i meccanismi che trasformano una cellula sana in una tumorale. Se non ci fosse stato il contributo della Sisal, gestore del Superenalotto appunto, Thomas Vaccari, milanese 36 anni, se lo sarebbe scordato di rientrare nella sua città a capo di un piccolo laboratorio. Come guida, seppur così giovane, di un gruppo di ricerca pioniera all’Ieo, Istituto europeo di oncologia diretto da Umberto Veronesi. Se l’Airc, l’Associazione ricerca cancro, non avesse, tra gli altri partner, anche la Sisal i ricercatori junior l’Italia, per l’oncologia, sarebbe meno competitiva. «Per la mia équipe di cinque ricercatori - spiega - ho avuto 750mila euro da dividere in cinque anni». Vaccari parla come portavoce di un esercito pressoché inquantificabile di quelli che hanno fatto i bagagli e sono andati lontano. Per non vivere la frustrazione di un paese in cui, per la ricerca contro il cancro, si investono 115 milioni di euro in totale. Di cui 64 vengono dalle associazioni di volontariato e 51 da finanziamenti pubblici. Che vuol dire un euro all’anno per ogni cittadino e una quota dello 0,0086% del prodotto. Per una malattia che uccide 150mila persone all’anno e ne colpisce 250mila. Su cento ricerche “sfornate” dall’Italia e pubblicate su riviste internazionali 50 sono arrivate in fondo grazie esclusivamente all’Airc.

I ricercatori protestano e i conti continuano a non tornare. Le associazioni chiedono contributi e le aziende pregano perché i loro aiuti ai laboratori si trasformino, come in quasi tutti i paesi europei, in crediti di imposta. Basta guardare l’entità dei finanziamenti degli ultimi anni per la ricerca di base per capire in quale direzione si sta andando: nel 2001 erano circa 130 milioni di euro, nel 2008 la cifra è scesa a 96. «Mi arrivano 100 milioni all’anno dal pubblico - fa sapere Enrico Garaci, presidente dell’Istituto superiore di Sanità - e mi bastano appena per pagare gli stipendi di 2400 ricercatori. Per fortuna produciamo bene, firmiamo lavori riconosciuti in tutto il mondo, nonostante le mille difficoltà, e riusciamo ad attrarne altri 100 attraverso borse di studio e fondazioni. Ma quanti talenti sprecati, quanti ne vedo partire». Chi parte, non va solo a cercare stipendi d’oro (negli Usa la ricerca è ben pagata) ma anche il mero diritto a lavorare. Il riconoscimento del merito. Siamo stati formati dall’università italiana, per noi ha speso un bel po’ di quattrini, dicono Thomas Vaccari tornato a Milano e Luca Lo Nigro accolto, dopo anni da emigrato col camice, all’università di Catania. Ed ecco i risultati. Da noi si contano 3,3 ricercatori su mille lavoratori mentre in paesi come la Francia o la Gran Bretagna se ne contano almeno 6-7. In tutto neppure 72mila contro i 186mila della Francia e i 267mila della Germania. Se poi entriamo nei laboratori troviamo anche qualche sorpresa: crescono gli stranieri che chiedono di usufruire di borse di studio in Italia. Per seguire i nostri gruppi, per partecipare all’équipe made in Italy che, all’estero, e non qui sono molto apprezzate. Ma, se ci parli, scopri che hanno mille problemi burocratici da superare. «Eppure - commenta Luigi Frati, rettore dell’università La Sapienza di Roma - nel mercato globale i nostri ragazzi sono considerati competitivi. Ma il turn over non c’è. Abbiamo la possibilità di mandare in pensione i professori a discrezione delle università ma, se decidiamo, questi fanno ricorso al Tar e tutto si blocca. I giudici danno la sospensiva, ogni passaggio è congelato e non posso far entrare le forze nuove». Freno a mano tirato con conseguenze anche sulla spesa: ci vogliono gli stipendi di tre ricercatori per fare quello di un professore. Nessuno si stupisce, dunque, se nei nostri atenei troviamo una classe di docenti molto più «anziana» di quella degli altri paesi. Tra i professori di ruolo solo lo 0,004-5% ha un’età che oscilla tra i 35 e i 40 anni mentre in Gran Bretagna la percentuale sale di poco oltre il 16%.

«Se il governo permettesse agevolazioni sottoforma di crediti di imposta - fa sapere Giorgio Squinzi, amministratore unico della Mapei, prodotti per l’edilizia e presidente di Federchimica - si potrebbe lavorare molto meglio. Noi produciamo in Italia ma anche in Germania, in Canada, negli Stati Uniti, in Francia, in Norvegia e a Singapore. Perché qui nessun incentivo a chi fa ricerca? Sarebbe un aiuto sul personale e sulla tassazione. Sono riuscito ad avere dei sostegni per progetti di 3 aziende mentre per altre 3 no». Perché, a maggio, la Mapei come molte altre non è riuscita «ad aggiudicarsi la lotteria delle agevolazioni». Già perché in primavera le aziende avevano la possibilità di presentare via mail le richieste con i progetti collegati ma, dopo meno di un minuto, non è stato più possibile accedere. Tutto esaurito. Hanno spinto il bottone ed era già piena la casella delle richieste. Si deve ritentare l’anno prossimo. Come per la lotteria di fine anno.


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