Messaggero: Miniuniversità, quanti sprechi, in 33 Comuni c’è un solo corso.
Il 40% dovrebbe essere soppresso. Il Ministero ha censito 268 sedi distaccate
di ANNA MARIA SERSALE
ROMA - Non c’è provincia che non abbia una sede universitaria. Invocata dai politici locali come una «conquista» e una «opportunità per il territorio», in realtà le tante “università di campanile” spesso sono nate sulla spinta di interessi locali, di congreghe e cordate accademiche, in risposta a logiche di potere. Poco importavano gli sprechi, il servizio scadente, la mancanza di laboratori, l’assenza di ricerca. Tranne qualche eccezione, il livello è scadente. Su 79 atenei, l’Italia conta 268 sedi universitarie distaccate. Università “ad personam”, ancora prima di avere uno studente, un professore, un libro, un laboratorio. Alcune hanno pochissimi iscritti. Ma in tempi di vacche magre, con il ministro Tremonti che taglia risorse, la lotta agli sprechi per ogni rettore diventa una necessità ineludibile. Anche perché il ministero è pronto a un giro di vite contro la proliferazione. In una nota riservata firmata dalla Gelmini e indirizzata ai capi di ateneo si chiede conto del numero estremamente elevato e difficilmente sostenibile delle sedi, sottolineando che sottraendo a questi numeri i corsi di area sanitaria, obbligatori perché in convenzione con le Regioni, si scopre che sono 57 i Comuni d’Italia che vantano una sede accademica di piccole dimensioni. Per l’esattezza sono 33 i Comuni con un solo corso di laurea e 24 con due. Fanno parte del primo gruppo Iglesias, Vinci, Ariano Irpino, Ceccano, Avezzano, Baronissi, Torre del Greco, San Pietro in Cariano, Cava de’ Tirreni, Cesenatico e altri ancora. Del secondo gruppo, invece, quello con due corsi di laurea, Jesi, Portogruaro, Matelica, Noto, Ragusa, Bra, Sesto San Giovanni, Verres, Faenza e altri. Ovviamente ci sono realtà che funzionano, ma in generale le carenze sono molte. Ancora nessuno si sbilancia, al Miur sono cauti, ma pare che un 30-40% di questi corsi verrà soppresso e altri verranno accorpati.
I Comuni con uno o due corsi di laurea, dunque, sono in totale 57. Ma abbiamo detto che il Miur, complessivamente, ha censito 268 sedi universitarie distaccate: mini-atenei attivati in comuni diversi da quello che ospita la sede principale. «Queste sedi sono spesso servite a “sistemare” i professori - sostiene Guido Fiegna, membro del Comitato nazionale di valutazione - Non voglio generalizzare, però molte di queste sedi hanno la funzione di “dottorifici”, non sono vere università. L’università, infatti, si misura sulla capacità di ricerca, che invece manca. Oggi l’unica via d’uscita è quella di mettere un’asticella, fissando degli standard. Così si distinguono le università di serie A da quelle di serie B. Non è che, senza organizzazione, mezzi, laboratori e biblioteche, chiunque può pensare di coprire da Ingegneria a Scienze motorie».
Così i nostri studenti, unici al mondo, sono abituati ad andare all’università senza tagliare il cordone ombelicale con la famiglia. Ma questo gli impedisce di crescere e di confrontarsi, salvo poi accorgersi che il lavoro sotto casa non c’è. Il fenomeno è talmente diffuso che si contano sulle dita di una mano le province prive di queste “università del campanile”. La moltiplicazione è iniziata timidamente negli anni ’80, poi è esplosa. Qualche esempio? L’Università degli Studi di Torino conta 9 sedi decentrate, l’Università del Piemonte Orientale 9, Genova 5, la Statale di Milano 10, il Politecnico di Milano 5, Pavia 6, Verona 8, Padova 11, Bologna 8, Ferrara 6, Ancona 6, Firenze 9, Perugia 6, Napoli II 9, Foggia 5, Bari 10, Messina 7, Catania 6, tralasciando le minori. Alcuni rettori, come nel caso di Frati alla Sapienza, stanno tagliando sedi. Anche il Politecnico di Torino ha avviato un programma di revisione. Ovviamente la soppressione di sedi delle volte scatena conflitti e proteste, non è indolore.
Il ministero dice che il primo passo sarà l’eliminazione delle duplicazioni e dei corsi che non hanno i requisiti per ottenere la “certificazione” prevista dalla riforma Gelmini. Intanto, La Sapienza fa da apripista al rinnovamento. «Ho già soppresso due sedi - afferma il rettore Luigi Frati - una a Civitavecchia, l’altra a Bracciano. In entrambi i casi due situazioni ormai insostenibili, con sprechi e pochi iscritti. A Civitavecchia avevamo un corso di laurea in Ingegneria e un altro in Economia, una follia mantenere un tipo di corso scientifico senza laboratori e strutture. A Bracciano avevamo una situazione analoga per Architettura del territorio. Sedi in cui la ricerca non esisteva, ma allora di quale università parliamo? Quella era già condannata ad essere di serie B. Gli studenti lo hanno capito, ora sono stati spostati e avranno un servizio migliore». «L’altro aspetto inquietante - sostiene Giovanni Grasso, ordinario di Fisiopatologia a Firenze - riguarda la dispersione delle già magre risorse. Per finanziare sedi di dubbia utilità si dà meno agli atenei che fanno sul serio ricerca, un doppio danno per gli studenti».
«Ci sarà presto - afferma la Gelmini - una verifica da parte del ministero di tutti i corsi di laurea e di tutte le sedi distaccate, per evitare che si creino insegnamenti e strutture non necessarie». Il ministro nella nota inviata ai rettori fa inoltre notare che la «spesa universitaria dal 2001 al 2006», negli anni del boom di cattedre, sedi e insegnamenti, «è aumentata del 19,8%, ma se questo aumento è calcolato in rapporto alle sole spese di personale e di funzionamento tocca il 23,4%». Un aumento non giustificato, visto che i risultati dell’intero sistema universitario, dice il ministro, sono insoddisfacenti.
Nel frattempo anche molti dei Comuni interessati mostrano difficoltà sempre maggiori nella gestione e manutenzione degli edifici offerti in dote da istituzioni varie per i mini atenei cresciuti all’ombra del campanile. Il frazionamento delle sedi negli ultimi anni ha accompagnato di pari passo la crescita incontrollata delle lauree, che avevano raggiunto quota 5.587 e che, nel 2009-2010, per la prima volta registrano un salutare calo: siamo scesi a 4.842 corsi di laurea, con meno 13,33%.