Messaggero: La scuola si prepara alla mobilitazione e corre verso lo sciopero
C’è già la data, il 13 aprile
di ANNA MARIA SERSALE
ROMA - La scuola si prepara alla mobilitazione e corre verso lo sciopero. C’è già la data, il 13 aprile. Il contratto di lavoro è scaduto da quindici mesi e la trattativa è in alto mare. Domani ci sarà un incontro, un “tentativo di conciliazione” secondo il lessico burocratico-sindacale. Un atto dovuto tra le parti prima della dichiarazione di guerra. Una guerra già decisa, a meno che non arrivi una inaspettata offerta dal governo. Il clima è teso. I sindacati hanno fatto un giro di consultazioni e hanno raccolto nelle aule «sfiducia» e «malumore».
«Troppe promesse mancate e uno storico disinteresse, gli insegnanti si sentono soli», la denuncia delle tre sigle confederali, Flc-Cgil, Cisl e Uil. La storia recente ha deluso l’esercito dei lavoratori della più grande “azienda-Italia”. Alla fine degli Anni ’90 il governo sventolando la bandiera del merito aveva detto agli insegnanti che finalmente non sarebbero stati tutti uguali. Gli 800 mila non dovevano sentirsi un gregge, con strumenti da concordare, qualcuno avrebbe valutato capacità professionali e impegno. Dopo anni di immobilismo si respirava un clima di cambiamento. Si pensava ad una nuova stagione di rilancio. Si rimettevano in discussione stipendi e stato giuridico. Si parlava di nuovi profili e di carriere.
Gli insegnanti, che fino a quel momento erano stati costretti al “ruolo unico”, speravano negli sbocchi: «Non solo cattedre, anche qualificazioni e nuovi incarichi», dissero i ministri dell’epoca. L’operazione naufragò con il “concorsaccio”. Nel frattempo si era cominciato a parlare di adeguamento agli «stipendi europei». Era la stagione dei confronti e gli insegnanti si sentirono umiliati: tra tutti i colleghi dell’Ue erano i meno pagati. Una crisi diffusa colpì la categoria, anche perché la considerazione sociale scendeva. Era come se, sconfitti sulle carriere e sugli stipendi, fossero stati consegnati alla società che di loro poteva fare quel che voleva. Nel Duemila le cose non cambiarono. Su carriere e incentivi ancora promesse. Di nuovo fu issata la bandiera del merito. I soldi erano pochi, si tentò una soluzione salomonica: in busta paga aumenti uguali per tutti, a parte incentivi da rapportare ai livelli di qualità e impegno.
Si parlò di “punti”. Gli insegnanti sarebbero dovuti tornare sui banchi delle università per acquisire nuove competenze, fare aggiornamento e riconvertirsi in figure professionali di nuovo stampo: coordinatori della didattica, tutor, docenti esperti, responsabili di biblioteca, modi alternativi per esprimere la propria maturità professionale.
Per molti la carriera serve ad avere qualche euro in più in busta paga. Un maestro appena assunto guadagna poco più di mille euro: 1.184. Un prof delle medie o di scuola superiore inizia con 1.270. Dopo 35 anni di servizio le cifre rispettivamente diventano: 1.656 euro; 1.803; e 1.863. «Quella degli insegnanti è una categoria da rivalutare - ha più volte dichiarato Giorgio Rembado, leader dei presidi - Se vogliamo che la scuola funzioni è necessario investire maggiori risorse». Il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, che nel corso della Finanziaria ha ingaggiato un duro braccio di ferro con Tommaso Padoa Schioppa per ridurre al minimo le perdite della scuola, ora dovrà affrontare un altro faccia a faccia con il collega, responsabile dell’Economia. Non sarà facile. «Dobbiamo e possiamo spendere meglio - ha dichiarato Fioroni due giorni fa - se per la scuola fossimo rimasti alla percentuale del bilancio relativa al 1990 avremmo 4,5 miliardi di euro in più rispetto ad oggi. Invece, la scuola è stata il fanalino di coda dietro la Difesa e la Protezione civile». Poi ha aggiunto: «Fare le nozze con i fichi secchi è difficile, lo dico per la battaglia quotidiana che faccio con il ministero del Tesoro. Per avere risorse in più non si può continuare a dire che dobbiamo mandare a casa chi lavora nel sistema dell’istruzione perché sarebbero troppi».
«Ci sono 200 milioni di euro - osserva Massimo Di Menna, segretario nazionale della Uil scuola - ottenuti dai tagli fatti sul personale della scuola. Ebbene, questi “risparmi”, stando alla Finanziaria 2005. Però il ministero dell’Economia ancora non li ha dati disponibili, non si capisce perché». Questi fondi non sono comunque sufficienti. Per il rinnovo del contratto ci vuole ben altro. Il sindacati puntano ad avere almeno un aumento del 5% sulle attuali retribuzioni. «Le carriere sono ferme - sottolinea ancora Di Menna - L’articolo 22 dell’ultimo contratto, quello del 2003, non è mai stato attuato per mancanza di soldi».
Ma nella scuola il piatto piange. L’ultima rilevazione dell’Ocse mette in luce un quadro allarmante. Eccolo. Nel 2004 abbiamo speso 50.709 milioni di euro, il 3,65 del Pil, con un calo del 2,2% rispetto al 2003, quando abbiamo speso 51.842 milioni di euro, il 3,77% del Pil. Se poi si prende in considerazione il 2002 ci si accorge che allora il calo era stato del 4,4%, dal momento che la spesa era stata di 48.833 milioni di euro. Quanto al 2005 si sa soltanto che la spesa in rapporto al Pil è stata del 4,8%, mentre la media Ocse è del 6,1%. Siamo ben lontani, dunque, dai paesi stranieri (la Francia, per esempio, è al 5,6%, la Danimarca al 6,8% e l’Austria al 5,5%).
Ma c’è un confronto che lascia più sconfortati. Le cifre in questo caso sono dell’Istat: negli ultimi sedici anni il tasso di crescita della spesa pubblica è stato dell’84%. Ma l’istruzione, con un più 73%, è cresciuta meno della Difesa, più 111%; meno della Sanità, più 122%; e meno della Protezione civile, più 127%.